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Un bambino ucraino in classe

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Un bambino ucraino in classe

Una studentessa scrive: "Un ragazzo ucraino è arrivato in classe. Stiamo provando a fare amicizia con lui ma è molto timido. Come possiamo fare?"

Una studentessa scrive: “È arrivato un ragazzo dall'Ucraina poco tempo fa, stiamo provando a fare amicizia ma lui è molto timido, e i professori non ci fanno usare il telefono per tradurre, come posso fare amicizia con lui?”.

È una domanda intensa e molto molto vera, presente in questo momento in tante classi in cui è stata accolto uno studente proveniente dall’Ucraina. È una domanda che testimonia l’esatta posizione in cui si trovano i nostri alunni di fronte a questo conflitto che nessuno ha scelto, nessuno ha voluto eppure sta cambiando il nostro modo di percepire il mondo, la vita, la relazione con gli altri.

Per un docente non c’è migliore occasione di spiegare che cosa è la guerra che avere in classe un ragazzo o una ragazza che da quella guerra stanno fuggendo. Perché la sua presenza lì, tra i banchi e in mezzo a coetanei che al mattino non devono fuggire da nulla, ma andare incontro alla vita che li aspetta, è la testimonianza effettiva di cosa una guerra comporta per chi sta costruendo il proprio futuro. La studentessa scrive: “Lui è molto timido” e forse il lavoro di noi adulti dovrà consistere nell’aiutare a comprendere che cosa si cela dietro a ciò che i ragazzi definiscono “timidezza”.

Deve essere faticoso e doloroso al tempo stesso doversi alzare una mattina e fuggire da tutto ciò che ha sempre rappresentato la base delle tue certezze, la routine della tua quotidianità. “E se un giorno vi alzaste e vi dicessero: molla tutto e fuggi verso un luogo sicuro, che si trova a migliaia di chilometri da dove vivi tu, che cosa pensi che proveresti, che cosa succederebbe nel tuo cuore e nella tua mente? E soprattutto in che modo proveresti ad adattarti alla nuova vita che ti trovi ad abitare, senza averla potuta scegliere?”.

Ecco, forse il primo passo da far vivere ai nostri studenti italiani consiste nell’aiutarli a mettersi nei panni del proprio compagno. Considerarlo timido può essere il modo più rassicurante per noi per non vedere dietro a quella presunta timidezza, l’impatto che il dislocamento, il senso di dispersione, la paura e a volta addirittura il “trauma” producono in chi si trova – senza volerlo – a incarnare il copione del profugo di guerra. Entrare in un’aula dove non conosci nessuno, non comprendi la lingua, dove quello che c’è non può che farti provare la tristezza e la nostalgia per quello che c’era prima e che ti sei dovuto lasciare alle spalle deve essere qualcosa di enorme e tremendamente faticoso quando sei in adolescenza.

Quel silenzio e quella presunta timidezza sono l’unica strategia che un ragazzo può mettere in gioco quando vive un’esperienza di dislocamento e di impotenza. E allora ha ragione la studentessa a chiedere “Come posso fare amicizia con lui?”. Si dichiara delusa dal fatto che a scuola non lasciano usare il traduttore automatico, ma forse in questo divieto dei docenti c’è qualcosa di più, qualcosa che va al di là della ricerca delle parole da dire. Perché non sono le parole quelle che possono servire in questo frangente. Quelle arriveranno, ma in un secondo tempo. Adesso servono gli sguardi, i gesti. E soprattutto esperienze di condivisione e azioni in cui anche uno studente straniero può trovare il suo posto, può sentirsi a casa.

Portiamo il linguaggio dell’arte, dello sport, della musica all’interno di classi in cui stiamo accogliendo studenti che provengono dall’Ucraina. Facciamogli fare squadra coinvolgendoli in attività in cui non servono le parole e ciascuno può trovare il proprio ruolo. Puntiamo sulla dimensione espressiva e creativa più che su quella performativa. E permettiamo a questi studenti – che arrivano nelle nostre classi senza ben sapere e capire che cosa li aspetti – di rimanere in contatto anche con la scuola, la classe, i docenti con cui condividevano la loro quotidianità.

Molte scuole in Ucraina hanno attivato la DAD e io penso che un modo per non far sentire soli e dispersi i ragazzi che ora “transitano” nelle nostre classi consista nel permettere loro di tenere il contatto e di coinvolgersi in attività che li tengano in rete con la loro storia e appartenenza, quella che la guerra ha interrotto così bruscamente.

Riuscire a fare bene tutto questo è impegnativo ma permetterà ai nostri studenti di diventare davvero protagonisti di un progetto di inclusione e di integrazione e al tempo stesso di costruire un modo migliore, quello in cui fare squadra è la migliore strategia per sconfiggere la prepotenza di chi è capace solo di “fare branco”. In fin dei conti l’antidoto per ogni forma di guerra è proprio scritto in questo principio.

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