Lo tsunami Squid game ha travolto tutto e tutti. Anche la scuola primaria e secondaria di primo grado. In poche settimane è diventata la serie televisiva più seguita al mondo. Squid Game descrive che cosa succede in un strano torneo in cui persone fragili e disperate provano a dare una svolta alla propria vita partecipando a gare basate su giochi infantili in cui la vittoria comporta la possibilità di poter “svoltare per sempre”, ma il minimo errore viene pagato con la morte. Per cui, ci si trova a guardare adulti che giocano a “1,2,3 stella” e che al minimo passo falso vengono eliminati in modo istantaneo. Si vede tutto e molto di più: pistole che sparano, sangue che schizza dappertutto, violenza grafica ed esplicita.
Perché ne stiamo parlando in relazione alla scuola primaria e secondaria di primo grado? Di una serie di questo tipo, esplicitamente raccomandato alla visione a partire dai 14 anni, alunni di 9,10, 11 anni non dovrebbero nemmeno sapere il titolo. E invece succede che bambini e bambine della primaria, ragazzi e ragazze della secondaria di primo grado sappiano tutto di questa serie tv e non vogliano parlare d’altro.
In un post che ho pubblicato alcuni giorni fa sulla mia pagina Facebook denunciavo che alcune insegnanti della scuola primaria rilevavano che il gioco più fatto durante l’intervallo dai loro alunni, in queste settimane, era 1,2,3 stella. Erano positivamente colpite dal fatto che i bambini si stessero riappassionando a giochi della tradizione passata, quelli che non si vedevano più sulla scena della crescita da molti anni. Solo che non comprendevano come mai questi giochi fossero contaminati da strane procedure non incluse nella versione originale: infatti i bambini sconfitti venivano avvicinati da un compagno che, simulando un colpo di pistola alla tempia, li faceva stramazzare al suolo.
Conversando con i propri alunni, questi docenti hanno scoperto che stavano inscenando nel gioco ciò a cui avevano assistito guardando la serie tv. O che, pur non avendo visto la serie tv, si erano sentiti raccontare dai fratelli maggiori o da altri compagni che ne erano stati spettatori.
La domanda si pone spontanea: come è possibile che bambini ancora così incapaci di metabolizzare simili contenuti possano assistere a programmi così inadeguati per i loro bisogni fase-specifici? E c’è qualcosa che un docente può fare per aiutare chi cresce e non rimanere intrappolato negli eventuali (e ahimè, possibili) effetti indesiderati derivati dalla visione di scene e situazioni ad alto contenuto (anche grafico) di violenza? La risposta è una sola: parlare, parlare, parlare.
Può essere molto utile, in un ambito come questo, decidere di strutturare una serie di conversazioni di classe in cui l’adulto dichiara apertamente di voler “curare” il tema che constata essere entrato massicciamente nel mondo interno ed esterno dei bambini, ovvero nei loro pensieri e nei loro giochi. I bambini devono sentire che il docente vive una preoccupazione “sana” nei loro confronti: non vuole giudicare, né castigare, né valutare. Vuole fare un lavoro completamente diverso: ovvero porre un “nuovo sguardo” su immagini e storie che normalmente vengono viste e seguite con lo sguardo “uncinato” da ciò che accade nello schermo. Di seguito alcune idee concrete.
SQUID GAME: SI DEVE PARLARNE CON I PROPRI STUDENTI? COME FARLO?
Di fronte all’evidenza che molti nostri alunni sono diventati spettatori di una serie Tv problematica e non adatta ai loro bisogni evolutivi come “Squid game”, quali azioni possiamo dunque sviluppare in classe con loro per fornire una prospettiva “altra” a ciò che lo schermo mette nelle loro vite? Come docenti possiamo renderci protagonisti di azioni educative che promuovono un nuovo sguardo su fenomeni che come “Squid game” entrano nelle vite dei più piccoli, diventano popolarissimi e generano addirittura fenomeni di inclusione ed esclusione: se tu non lo guardi, allora non sei “dei nostri”.
Il docente può dare altre visioni, altri significati, promuovere un altro sguardo. Ovvero, uno sguardo che seguendo gli stimoli potenti e intensi della narrazione televisiva, venga poi aiutato a rivolgersi all’interno di se stessi, ponendosi le domande necessarie per dare significati a ciò cui si è assistito. Lavorare sui “significati” non è qualcosa che avviene in modo automatico. Un problema enorme per i nostri studenti, oggi, è che nella loro vita entrano milioni di stimoli, a una velocità enorme, senza che abbiano il tempo della rielaborazione. Ci sono molti temi legati alla “pandemia da Squid game” su cui noi docenti possiamo lavorare. Ecco alcuni filoni di lavoro:
Queste sono solo alcune tracce di lavoro e “pensiero” che possono essere sviluppate con i propri studenti, magari attraverso la realizzazione di circle time. Una cosa è certa: quando i bambini nel gioco mettono in scena qualcosa di così violento e anomalo, è segno che devono “buttarlo fuori” e spesso l’azione del gioco sostituisce le parole che non riescono a dire intorno a ciò che vivono nel loro mondo profondo. Significa che per loro diventa molto complesso elaborare a livello intrapsichico ciò che nella loro mente rischia di rimanere irrisolto e incomprensibile. In tutte queste situazioni il lavoro del docente deve essere quello di far “emergere” ciò che rischia altrimenti di rimanere nascosto e di imparare a trovare modi con cui raccontarlo che servano anche a dare i giusti significati a esperienze che riguardano la nostra esistenza e che hanno un alto impatto emotivo su ciascuno di noi.
*Alberto Pellai, autore dell'articolo, è medico e psicoterapeuta dell'età evolutiva. Ha scritto diversi libri per ragazzi, genitori e insegnanti.