Di scuola aperta, diffusa sul territorio si parla da tempo. Ma è piuttosto recente lo strumento che potrebbe aiutare davvero a realizzarla. I patti educativi di comunità sono stati introdotti nel Piano scuola 2020-21 dall'allora ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina e sostenuti anche dal CTS presieduto da Patrizio Bianchi, attuale ministro. In piena emergenza Covid, l'incubo di ogni scuola era quello di reperire spazi abbastanza ampi per poter contenere gli alunni opportunamente distanziati. E allora l'invito del ministero alle scuole era quello di rivolgersi a tutte quelle realtà che avrebbero potuto essere d'aiuto: istituzioni, enti culturali, associazioni, privati.
Servono per far uscire la scuola dalle mura. L'obiettivo dei patti, però, non era solo quello di reperire aule aggiuntive. Si tratta di uno strumento abbastanza agevole in grado di favorire finalmente il dialogo tra tutte le componenti della comunità educante. Per fare cosa? Per far uscire la scuola dalle sue mura e consentire agli studenti di conoscere, vivere e infine amare e difendere il proprio territorio. Per sperimentare nuove forme di didattica che portino i ragazzi ad apprendere facendo: in musei, laboratori, aziende.
Recuperando tutti quei saperi, e sono tanti, di cui ogni territorio è ricco. Avvalendosi della collaborazione di esperti, artigiani, artisti, imprenditori, ricercatori, coltivatori, operai... di tutti coloro che possono insegnare qualcosa di bello e utile ai nostri ragazzi, mettendosi a disposizione della scuola. Un rapporto stretto con il proprio territorio che deve diventare biunivoco: la comunità aiuta la scuola, la scuola diventa un punto di riferimento per l'intera comunità.
La pedagogia della riconciliazione. “Si parla di pedagogia della riconciliazione per indicare quelle forme di scuola che si rendono possibili grazie a una collaborazione non solo organizzativa ma anche didattica da parte del territorio e degli enti locali e del terzo settore - spiega Jose Mangione, ricercatrice di INDIRE-. La scuola diventa uno spazio per la partecipazione di tutta la comunità locale, per il consolidamento dell'identità di un territorio, per rafforzare l'appartenenza a una comunità. E il territorio diventa uno spazio di esperienza, quello spazio educativo allargato di cui parlava Francesco De Bartolomeis (Fare scuola fuori della scuola, 2018 Aracne).
Il territorio è corresponsabile nel ridefinire il curriculum della scuola che a questo punto diventa, come diceva Jerome Bruner, una conversazione animata tra dentro e fuori (La cultura dell'educazione, Feltrinelli, 2015)”. D'altra parte, tra gli scenari del futuro prefigurati dall'OCSE c'è proprio quello della scuola learning hub. Non soltanto luogo di insegnamento per bambini e ragazzi ma luogo di formazione per i loro genitori, centro culturale e ricreativo per grandi e piccini, veicolo di educazione civica, ambientale e sanitaria.
“Il patto educativo di comunità è lo strumento amministrativo che consente di realizzare tutto questo -spiega Jose Mangione-. Ed è uno strumento piuttosto agevole, semplice da utilizzare. È la scuola che si muove per prima e chiede al suo territorio di mettersi al servizio dell'educazione in generale. Si convoca una conferenza dei servizi e ci si siede tutti attorno a un tavolo: scuola, istituzioni, associazioni. Da lì il passo è breve”.
Quanto sono diffusi i patti di comunità in Italia? “Insieme al gruppo di ricerca sulle Piccole Scuole di INDIRE che studia il modello di scuola di comunità (Giuseppina Cannella, Stefania Chipa, Francesca De Santis, Rudi Bartolini, Serena Greco e Chiara Zanoccoli) abbiamo condotto un primo censimento, basato sui dati dei vari Uffici Scolastici Regionali che hanno gestito i finanziamenti messi a disposizione lo scorso anno dal ministero proprio per i patti di comunità (vedi figura). Parallelamente abbiamo cercato di comprendere se i patti siano stati davvero un'occasione di innovazione. Abbiamo svolto una prima analisi esplorativa in tre regioni (Liguria, Abruzzo ed Emilia Romagna). È emerso che i patti avevano avuto un ruolo molto importante nell'ampliamento dell'offerta formativa tramite percorsi sul benessere, l'ambiente, la mobilità consapevole. Per combattere la dispersione scolastica e la povertà educativa. Per l'approfondimento e il potenziamento curriculare ed extra-curriculare, soprattutto per quanto riguarda l'educazione civica e la cittadinanza attiva”. Senza contare il ruolo fondamentale giocato dai patti durante la pandemia, non soltanto per il reperimento di spazi aggiuntivi dove svolgere le lezioni. I territori a volte si sono fatti carico di servizi che la scuola non poteva garantire. Ad esempio, nel comune di Napoli sono nati laboratori per la didattica a distanza che accoglievano i ragazzi in spazi ampi e adeguati, per sostenere quelle famiglie che non riuscivano a seguirli a casa.
Recentemente la struttura di ricerca di INDIRE che si occupa di Piccole scuole, in collaborazione con LABSUS (Laboratorio per la sussidiarietà), ha costituito un Osservatorio nazionale sui patti educativi di comunità. “Lo scopo è quello, nell'arco di 6 mesi, di dare una prima infografica reale di come si sono distribuiti questi patti in tutto il territorio nazionale -spiega ancora Jose Mangione-. La sensazione è che ad approfittare di questo nuovo strumento siano state soprattutto le piccole scuole e quelle periferiche, forse perché in questi casi il rapporto con il territorio era già forte. La piccola scuola è una scuola necessitata ad avvalersi delle alleanze, più o meno formalizzate. Ne va della sua stessa sopravvivenza”. Nelle scuole più grandi, invece, sembra prevalere l'idea di farcela da soli. C'è l'expertise, c'è il budget, non si avverte il bisogno di rivolgersi all'esterno. Così però si perdono moltissime occasioni di arricchimento dell'offerta formativa.
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