Focus

Pagella di metà anno: come sostenere il recupero degli studenti

Stampa
Pagella di metà anno: come sostenere il recupero degli studenti
Getty Images

Le insufficienze in pagella impongono qualche riflessione. Come aiutare i nostri studenti e le loro famiglie ad affrontare le difficoltà? Quali strade si dimostrano più efficaci?

Le prime pagelle dell’anno scolastico sono state appena consegnate: è tempo di bilanci e preoccupazioni per gli studenti e le loro famiglie. È in questo periodo – gli insegnanti lo sanno bene – che gli orari di ricevimento sono spesso affollati di genitori allarmati dagli esiti delle valutazioni, che riportano tre-quattro o più insufficienze, e si domandano che cosa fare per essere concretamente d’aiuto ai figli. I momenti di difficoltà sono parte integrante del percorso di apprendimento, ma rappresentano anche una sfida per gli insegnanti. Come sostenere in modo concreto i nostri allievi? Quale strada è possibile percorrere per aiutarli a uscire dall’impasse e avviarli verso il successo formativo?

La risposta non può essere semplice né univoca. Ogni studente è un microcosmo di esperienze, attitudini, potenzialità diverse e la sua storia scolastica riflette questo puzzle dalle mille tessere. È per questa ragione che sempre più spesso si sottolinea l’importanza di un insegnamento individualizzato, che risponda ai bisogni di ogni allievo e lo aiuti a imboccare le strade più efficaci per uscire dalle difficoltà. Di seguito cercheremo di mettere insieme un piccolo vademecum per orientarsi tra i diversi tipi di problemi scolastici che gli insegnanti si trovano ad affrontare e per ciascuno tenteremo di offrire alcune dritte e un piano d’azione pratico, con l’aiuto di autorevoli esperti.

Le difficoltà scolastiche sono il sintomo di altri disagi?

Un problema scolastico non sempre nasce direttamente sui banchi di scuola e può affondare le sue radici nel benessere generale del bambino o dell’adolescente. In questi casi le difficoltà scolastiche non sono che un sintomo di un disagio più profondo, che spesso necessita del supporto di personale specializzato.

Problemi che coinvolgono la sfera emotiva come il disturbo di ansia generalizzato o gli attacchi di panico; i disturbi alimentari; disturbi dell’umore come la depressione o il disturbo borderline; le difficoltà di relazione e comunicazione con i coetanei, che a volte sfociano in veri e propri atti di bullismo; o, ancora, le dipendenze (per esempio da smartphone o videogiochi) possono avere come conseguenza un basso rendimento scolastico.

Nel caso di bambini o ragazzi molto riservati, talvolta il calo nel profitto è l’unica spia di un disagio che non si riesce o si ha paura di esprimere. Ecco perché lo sguardo attento dell’insegnante, pronto a cogliere piccoli ma significativi segnali, come cambiamenti improvvisi nel comportamento, può essere un importante punto di partenza. Insieme ad altri tipi di disagio, tutte queste difficoltà possono rientrare nei cosiddetti “Bisogni Educativi Speciali” (BES), che possono essere situazioni stabili o temporanee, di cui gli insegnanti devono tenere conto nel progettare la loro didattica e per essere concretamente d’aiuto al loro allievo.

Aprire il dialogo con i genitori e porsi in ascolto

«Per partire con il piede giusto, stabilire un dialogo costruttivo con i genitori è fondamentale», sottolinea Irene Liaci, insegnante di matematica e fisica nella scuola secondaria superiore con una lunga esperienza come insegnante di sostegno alle spalle. «Di fronte al genitore preoccupato per i problemi di profitto del figlio – continua Liaci – penso che la cosa più importante sia proprio partire dall’ascolto. Prima di intervenire dando il nostro parere, ascoltiamo quello che il genitore ha da dirci, prestiamo attenzione al modo in cui ci “racconta” del figlio, che è senza dubbio diverso da quello che gli insegnanti vedono in classe. Sono elementi importanti, sui quali si può costruire molto».

Il dialogo con la famiglia spesso non è facile, eppure recuperarlo è fondamentale, perché può influenzare molto l’efficacia del lavoro fatto in classe. «Genitori e insegnanti dovrebbero darsi consigli a vicenda e cercare una strategia comune», continua Liaci. «I ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento che diano loro la sicurezza e la stabilità che sentono ancora di non avere. Ascoltare discorsi completamente diversi a casa e a scuola li disorienta». Talvolta le resistenze del genitore derivano dalla paura di accettare le difficoltà oggettive del figlio.

«Si tratta di un problema frequente – sottolinea Liaci – e credo che assumere un atteggiamento di giudizio, se non di condanna, non serva a niente. Si tratta di una difficoltà comprensibile per un genitore, perché va a colpire l’autostima personale, ma che è importante vincere, per il bene dello studente». Come fare, allora? «Quando il colloquio con l’insegnante non basta, si può far leva sul gruppo di lavoro, di cui possono far parte esperti come lo psicologo o il pedagogista, che consentiranno al genitore di vedere le cose da più punti di vista, per cercare insieme le strade più efficaci», conclude Liaci.

Le difficoltà scolastiche nascono da un disturbo di apprendimento?

I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) sono difficoltà che riguardano abilità precise, come la lettura, la scrittura o il calcolo, hanno origine neurobiologica e non sono assolutamente collegati al quoziente intellettivo. Ma non è sempre facile capire quando una difficoltà scolastica nasca da un DSA.

Ne abbiamo parlato con Daniela Traficante, docente associata di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università Cattolica di Milano e attiva nella ricerca sui disturbi dell’apprendimento. «Qualche riflessione sui numeri può aiutarci a mettere il discorso nella giusta prospettiva», sottolinea Traficante. «È fisiologico che in una classe il 20% degli alunni sia in difficoltà, ma l’epidemiologia ci dice che solo il 4-5% circa degli studenti ha un DSA. Un importante criterio diagnostico per distinguere tra difficoltà e disturbo dell’apprendimento è quello della resistenza al trattamento».

Anche la legge 170/2010, che riguarda proprio i disturbi specifici dell’apprendimento, afferma che la scuola deve segnalare alla famiglia la necessità di un approfondimento diagnostico solo per gli studenti che continuano a essere in difficoltà nonostante le adeguate attività di recupero didattico. «Mi sembra, quindi, importante – aggiunge Traficante – che prima di arrivare a una diagnosi di DSA si programmino interventi di rinforzo e recupero, magari da svolgere in piccoli gruppi, che consentono all’insegnante di agire in modo più mirato».

Diverso il discorso per le difficoltà che emergono nei ragazzi più grandi, per esempio nelle scuole secondarie. «In questo caso spesso non si tratta di scarsa attenzione degli insegnanti della primaria, che li porta a non accorgersi in tempo dei segnali di un DSA», nota Traficante. «Alcuni disturbi non particolarmente gravi, soprattutto quando ci troviamo di fronte a ragazzi con buone risorse cognitive, talvolta emergono con chiarezza solo con il tempo, quando i contenuti dei testi da studiare si fanno più complessi. È il caso di ragazzi che possono apparire svogliati e demotivati, ma che, in realtà, stanno sperimentando la frustrazione e la fatica di non riuscire a vedere premiati i propri sforzi». La diagnosi del disturbo potrebbe consentire a questi ragazzi di avere il sostegno delle strategie compensative previste dalla legge, evitando, come accadeva in passato, di demotivarli e di spingerli ad abbandonare gli studi.

È un problema di metodo di insegnamento o di studio?

Se i colloqui con i ragazzi, le famiglie e, quando ce n’è il bisogno, con personale specializzato escludono altri e più complessi problemi, è possibile che il grosso nodo da sciogliere sia il metodo, d’insegnamento da un lato e di studio dall’altro. Spesso si sottovaluta l’importanza fondamentale del “come si insegna” e del “come si impara” e si rimane sorpresi dai risultati apparentemente miracolosi di un cambio di strategia in questo senso.

«Come insegnanti non sempre riflettiamo sul fatto che il nostro stile di insegnamento possa non “arrivare” a tutti», ricorda Adele Maria Veste, insegnante di matematica e specializzata nel sostegno, con una lunghissima esperienza nella formazione degli insegnanti sulle difficoltà scolastiche. «La tentazione è spesso quella di fermarsi a un solo metodo di insegnamento, che il più delle volte si identifica con la lezione frontale rivolta a una classe passiva. Ma così facendo si finisce con l’essere recepiti solo da una piccola parte della classe», aggiunge Veste.

Anche la legge 107/2015 (la cosiddetta “Buona Scuola”) ha sottolineato l’importanza di rispettare tempi e stili di apprendimento dei nostri studenti. Per esempio, è possibile focalizzarsi su più canali sensoriali, per riuscire a raggiungere con efficacia tutta la classe. Continua Veste: «Ci sono alunni che apprendono soprattutto attraverso il canale uditivo, cioè quando la lezione assume l’aspetto di una narrazione, di un racconto. Altri imparano meglio con la lettura e la scrittura, usando, cioè, il canale visivo-verbale. Ci sono, poi, studenti che hanno bisogno di ancorare un concetto a un’immagine, preferendo il canale visivo-iconografico. Altri, infine, apprendono attraverso il fare, con il canale cinestetico, attivato anche dalla didattica laboratoriale».

Adoperare più di un canale ha il doppio vantaggio di sollecitare ogni singolo studente da più punti di vista e di moltiplicare le possibilità di raggiungere tutti. «Moltissimi insegnanti ancor oggi impostano le loro lezioni facendo leva solo sul canale visivo-verbale, adoperando la lettura e la scrittura. Ma le ricerche ci dicono che usare più linguaggi è una strategia molto più efficace. Bisogna anche tenere presente che lo stile di apprendimento dei singoli alunni tende a evolvere nel tempo e questo rende ancora più importante usare un approccio diversificato», conclude Veste.

Ma per imparare a studiare efficacemente bisogna innanzitutto partire dall’autoconsapevolezza. “Conosci te stesso”, dicevano gli antichi greci e il motto continua ad avere una sua importanza, anche quando si parla di scuola. «Una proposta importante potrebbe essere quella di sfruttare la prima settimana di scuola per sottoporre agli alunni dei questionari sugli stili di apprendimento», consiglia Adele Veste. Si tratta di strumenti semplicissimi da utilizzare, contenenti frasi in prima persona (per esempio: “quando studio, se sottolineo o evidenzio parole e frasi mi concentro di più”), quindi di immediata comprensione per gli studenti. Dedicare qualche giorno a cercare di capire con quali tecniche si impara meglio potrà far guadagnare tempo prezioso in seguito e sarà utile a prevenire problemi futuri.

È bene insegnare ai nostri studenti a sollecitare più canali di apprendimento anche quando lavorano in autonomia, a casa. Usare colori e imparare a strutturare mappe concettuali; registrarsi mentre si ripete la lezione per riascoltarsi; prendere appunti in modo attivo, per esempio con il metodo Cornell (in cui si divide il foglio in più zone da dedicare alla rapida annotazione e al suo sviluppo) sono tutte strategie che è utile alternare.

Può essere utile organizzare lavori di gruppo

«Tra le strategie di provata efficacia ma spesso trascurate nella didattica scolastica c’è quella di far leva sulle relazioni interpersonali tra gli studenti», sottolinea Adele Veste. «Nelle attività di recupero in piccoli gruppi, i compagni di classe possono assumere il ruolo di facilitatori. Superare le difficoltà contando sull’appoggio di un compagno che lavora al nostro fianco può far vincere l’imbarazzo del giudizio dell’insegnante. D’altra parte, il “facilitatore”, di solito uno studente brillante, viene motivato dal fatto di assumere un ruolo gratificante e non rischia di annoiarsi mentre gli altri recuperano nozioni che già possiede», sottolinea Veste.

Il problema è che, spesso, nelle scuole italiane, le attività di gruppo sono viste come momenti di svago, senza particolare importanza e non soggette a valutazione. «Questo porta gli studenti a sottovalutarle, perché istintivamente i ragazzi danno importanza a ciò che viene valutato», conclude l’esperta. Vale, invece, senz’altro la pena di recuperare la valenza didattica di questi momenti “corali”. Perché bravi a scuola si diventa. Tutti insieme, in un ambiente scolastico davvero inclusivo.

L'utilizzo del dual coding per superare le difficoltà

  • Andrea (nome di fantasia) è uno studente di scuola media con evidenti difficoltà in geografia. Interrogato sulle caratteristiche di una singola area geografica spesso fa scena muta. «Attraverso una attenta osservazione e dopo aver parlato con il ragazzo – ricorda Adele Veste – abbiamo scoperto che le sue difficoltà si annullavano completamente quando si offrivano allo studente dei dati di confronto». Per esempio, un’interrogazione in cui potesse confrontare dati relativi a più regioni geografiche lo vedeva rispondere senza alcun problema, soprattutto quando gli veniva data la possibilità di lavorare su schemi e grafici che sollecitassero il canale visivo-iconografico. In questo caso si può notare chiaramente l’efficacia dell’uso del canale alternativo e l’importanza di approfondire la questione senza dichiararsi sconfitti alle prime difficoltà.
  • Davide (nome di fantasia) frequenta il quarto anno di un istituto tecnico con indirizzo informatico ed è dislessico. Ha sempre avuto difficoltà in storia, ma a un tratto riferisce di essersi appassionato alla materia. Il suo insegnante ha iniziato ad affiancare alle tradizionali lezioni l’uso di slide, che fornisce al ragazzo un ancoraggio visivo per ogni concetto. Davide si sente molto più a suo agio nello studio della materia, anche perché può usare il mezzo informatico, che da sempre predilige, e suggerisce ai professori di adoperare questa via alternativa in caso di problemi in altre materie. «In questo caso possiamo vedere come l’uso di un doppio canale – quello che i pedagogisti chiamano dual coding – sia stato la chiave vincente per il superamento di un problema che poteva minare anche l’autostima dello studente», afferma Adele Veste.