Molti docenti e dirigenti l'hanno scoperta “grazie” al coronavirus: la scuola all'aperto è stata sicuramente una carta vincente durante la pandemia, garantendo aerazione e distanziamento in maniera naturale. Ora che l'emergenza è finita, però, non è il caso di tornare a chiudersi nelle quattro mura scolastiche. Perché l'outdoor education, come va di moda chiamarla ora, fa bene: agli alunni e anche ai docenti.
Un buon modo per incominciare è quello di documentarsi. Le possibilità sono innumerevoli: testi, manifesti, esperienze. C'è l'imbarazzo della scelta. Leggendo, si scopre che per bambini e ragazzi stare all'aperto non è soltanto bello, è assolutamente necessario. Angela Hanscom, terapista occupazionale dell'età evolutiva, spiega: «Se teniamo i bambini sempre in spazi ristretti questo avrà un impatto sullo sviluppo del loro sistema vestibolare. Questo sistema è fondamentale per tutti gli altri sensi e supporta l'integrazione sensoriale, ovvero l'organizzazione cerebrale, creando le fondamenta per l'apprendimento».
Alberto Oliverio, ordinario di Psicobiologia alla Sapienza di Roma, conferma che «muoversi in uno spazio aperto favorisce il contatto con la realtà, l'osservazione, la motivazione a scoprire qualcosa di nuovo. Il bambino all'aperto nota delle cose che difficilmente potrebbe notare al chiuso. Spesso in un ambiente monotono, in una classe, un bambino ha un'attenzione molto labile: dopo una decina di minuti è già stanco. All'aperto la sua attenzione migliora e può durare molto a lungo».
«Stare all'aperto migliora la vista, aumenta il livello della vitamina D, riduce obesità, stress, rabbia, aggressività, aumenta le competenze relazionali - racconta Monica Guerra, ricercatrice all'Università Milano Bicocca e uno dei massimi esperti italiani nel tema dell'educazione naturale - Trascorrere tempo in natura migliora gli stessi risultati scolastici, l'attenzione, il comportamento, la passione per l'apprendimento».
«Per paura dell'estremo non si fa nulla. Ma non c'è nulla di estremo - spiega Rodolfo Cavaliere, uno dei fondatori di Biella Cresce, una onlus noprofit che da sempre insiste su questo tema - La scelta non è tra sempre al chiuso e mai più al chiuso. Se piove, la scuola è là: basta rientrare. E se non hai fatto alcun corso abilitante, prova a portarli fuori lo stesso! La lezione che fai in classe, falla all'aperto: cambia tantissimo, senza neppure cambiare la didattica, soltanto spostando i mobili all'aperto. Non è che dobbiamo prima essere pronti. Se aspetti di essere pronto per cambiare non cambi mai».
Basta poco, dunque, ed è fattibile. Anzi, molti già lo fanno. E non sono soltanto scuole di montagna o perse nella campagna. Anche scuole in città, tra asfalto e cemento.
«Il fuori per noi è a tutti gli effetti un ambiente educativo. Non si tratta solo dell'ambiente naturale. Bisogna pensare che l'ambiente educativo è tutta la città... l'Italia è l'aula più bella del mondo - fa notare Paolo Mai di Piccola Polis - Con il comune di Roma abbiamo fatto una mappatura, non c'è scuola che non abbia uno spazio verde a una distanza inferiore ai 5-10 chilometri. Bisogna solo uscire dalla gabbia mentale che ci siamo creati».
«Ci sono ad esempio tutti i laboratori artigianali - spiega Giampiero Monaca, maestro fondatore del metodo Bimbisvegli - Se parlo dei microgranismi e dei lieviti non è necessario fare una lezione frontale in classe. Posso invece andare dal fornaio, chiedergli due pezzetti di pasta a diversi livelli di lievitazione e utilizzare il forno come un vero laboratorio didattico. Le possibilità sono infinite. L'insegnante deve guardare al suo territorio come fosse un catalogo di attività, ambienti e persone, in modo da utilizzarli in modo funzionale. Anche il trasferimento da un luogo all'altro è utile per la didattica: i cartelli della pubblicità ad esempio permettono infinite ore di lezione!».
È chiaro che uscire da soli con 25 bambini può scoraggiare. Ma nulla vieta di farsi accompagnare da volontari o esperti, tanto più che il ministero incoraggia la firma di protocolli di corresponsabilità con enti e associazioni. Fondamentale è anche coinvolgere le famiglie.
«È un'ostacolo superabile se lo si vuole superare - racconta Francesco Muraro, dirigente dell'istituto comprensivo Francesco Cappelli a Milano, che sorge nel parco Trotter - La famosa norma riportata in tutti i regolamenti secondo la quale ci vuole un accompagnatore ogni 15 alunni nessuno mi ha saputo dire dove è scritta. Invece, il numero di alunni e il numero di accompagnatori deve essere rapportato al quoziente di rischio dell'uscita stessa. Per esempio, alcune mie classi devono uscire dalla sede principale perché la mia palestra non riesce a gestire tutto il fabbisogno. L'insegnante di motoria prende una classe di 23 pre-adolescenti con tutti i permessi e le coperture formali, apre il cancello e fa una camminata di 8 minuti per arrivare nell'altro mio plesso dove c'è una palestra fruibile. Una sola strada, un solo attraversamento. Devo garantire la compresenza sempre? No. Il quoziente di rischio è, dal mio punto di vista, basso. Avendo 8 classi delle medie che vanno a fare motoria fuori dovrei mettere otto volte una compresenza solo per portarli in palestra: sarebbe uno spreco delle risorse».
È d'accordo anche Alfina Bertè, dirigente dell'istituto comprensivo Giovanni XXIII ad Acireale, in provincia di Catania:
«Basta inserire nel piano dell'offerta formativa la dichiarazione dell'intento di utilizzare il territorio come strumento per l'apprendimento. Così l'assicurazione include anche lo spazio esterno nella copertura. Quello che capita fuori è coperto, così come gli incidenti che possono accadere in classe o in palestra. E basta aggiungere nel patto scuola-famiglia che ogni qual volta usciremo sul territorio (che è cosa diversa dalla gita) lo scriveremo semplicemente sul diario, per evitare di dover chiedere ripetutamente l'autorizzazione. Perché fai scuola nel territorio quando lo fai in modo ricorrente, non quando ce li porti una volta l'anno. Così l'outdoor education diventa una routine».
Michela Schenetti, docente dell’Università di Bologna, è uno degli attivatori della Rete nazionale delle scuole che praticano la didattica all'aperto:
«Da anni giro le scuole d'Italia e una delle obiezioni più frequenti è: come facciamo a convincere i genitori che fuori non perdiamo tempo ma facciamo scuola? Io ogni volta controbatto con una proposta: chiediamo ai genitori cosa ne pensano senza ritenere di conoscere già la risposta! E vi posso dire che i genitori in ogni contesto hanno dimostrato di essere possibilisti, di fidarsi e affidarsi. Prima che convincere loro, è necessario convincere noi stessi. E l'unico modo per farlo è iniziare a provare, a sperimentare e a documentare i processi per farne tesoro»”.
La seconda obiezione è anch'essa sempre la stessa: non possiamo fare solo Scienze, ci sono altre materie... Com'è possibile promuovere l'intero curriculo fuori? «Ebbene, fuori i contenuti e i saperi sono complessi, interconnessi: sta a noi riconoscerli per attraversare tutte le discipline, ma proprio tutte» continua Michela Schenetti.
All'aperto, assicura Giampiero Monaca, si può affrontare qualsiasi argomento.
«Si parte dalla Geografia, fatta svolgendo rilevamenti topografici da trasferire su una mappa realizzata dai bambini. Poi non c'è niente di meglio dell'osservazione per insegnare Scienze: basta partire sempre dal fenomeno e trovare la regola generale. Perfino Storia la affronto tra le nostre colline: cerchiamo i minerali, le stratificazioni e raccontiamo della preistoria, della tettonica a zolle. Le strutture degli alberi insegnano le moltiplicazioni attraverso le biforcazioni, come suggeriva Bruno Munari. Certo, per Italiano, come per Matematica, a volte ci vuole un tavolo... non un tablet, meglio un taburét, ovvero un banco in piemontese. Ma noi li abbiamo messi all'aperto, anche quelli».
«Nel mio istituto ci sono sette plessi distribuiti in diverse frazioni della città. Nessuno di questi ha la fortuna di sorgere a due passi da un bosco. Eppure, praticamente ogni giorno, tutti i 705 alunni fanno scuola all'aperto». Alfina Bertè dirige l'istituto comprensivo Giovanni XXIII ad Acireale, in provincia di Catania, una scuola innovativa che ha assunto l'outodoor education in pianta stabile. Per aprirsi all'esterno basta davvero poco, assicura.
«Tutte le scuole hanno almeno un cortile! Ad esempio lo spiazzo in terra battuta con l'erbaccia nel plesso di Santa Maria delle Grazie: lo abbiamo trasformato in un'aula all'aperto, con i tronchi per sedersi, la cucina di fango per creare, il muro d'acqua per giocare, le panche, gli ombrelloni. Abbiamo concluso un accordo con il comune per il pullmino che ci porta in un bellissimo parco suburbano dove i bambini possono entrare nel bosco. Nella frazione di Pennisi la scuola, danneggiata dal terremoto, è stata ricostruita in legno dalla protezione civile con l'orto, le aree verdi, i cortili didattici... Io li amo moltissimo: basta utilizzare gli stencil e un po' di vernice per realizzare orologi, la linea dei numeri, la tavola pitagorica, la linea del tempo. Le possibilità di lezione anche banalmente in un cortile sono tantissime. Se non hai proprio nulla puoi crearti l'orto mobile con le cassette alte di legno».
La scuola all'aperto, secondo Alfina Bertè, non solo è assolutamente fattibile ma è consigliabile sotto tutti i punti di vista, in particolare per l'apprendimento. «Non è un extra da concedere, si deve fare. I bambini apprezzano moltissimo il fatto di uscire, fare esperienze che danno loro una carica non solo emotiva ma anche cognitiva perché fuori gli stimoli sono tantissimi. I bambini sono più interessati e si concentrano meglio, sono più attenti, vogliono sapere. E quello che imparano così resta sicuramente più impresso. Il nostro modo di lavorare ci ha portati già da due anni a lavorare sul territorio. Le frazioni sono diventate libri da aprire e da studiare, con tutte le discipline. I bambini hanno realizzato un grande libro con la storia della loro piazza, hanno fatto parlare la fontana, da dove veniva, perché era lì, hanno studiato, hanno misurato. Bisogna assolutamente eradicare l'idea che chi va fuori non fa nulla e chi invece rimane in classe a riempire pagine su pagine lavora... non è così».
Come muoversi in questa direzione?
«Oggi non si è più soli in questo percorso. C'è tanta letteratura da consultare, ci sono innumerevoli possibilità di formazione, c'è la Rete nazionale delle Scuole pubbliche all'aperto che accompagna passo passo inviando un facilitatore per tre anni. Prendere come modello, come esempio, un'altra scuola che ha già fatto questo percorso è una buona idea. Non per copiare, ma come spunto, come idea di relazione, magari attraverso un gemellaggio. Io faccio parte della Movimento delle Piccole Scuole e stiamo lavorando sulla scuola di prossimità, ovvero fare scuola nel territorio. Anche questo dovrebbe essere normale, lo dovremmo fare tutti, eppure ci siamo chiusi dentro».