Nel 1955, davanti all’Accademia Nazionale delle Scienze, uno dei fisici più estrosi e geniali del Novecento, Richard Feynman, ebbe a dire che non siamo ancora in un’era scientifica perché “nessuno si sente ispirato dalla nostra immagine attuale dell’universo. Questo valore della scienza non viene cantato dai cantanti, siete ridotti ad ascoltarlo non in musica o in versi, ma in una conferenza serale. Non siamo ancora in un’era scientifica”.
Aveva ragione, ma con alcune eccezioni, almeno tre delle quali sono giganti della letteratura italiana: Primo Levi che, al di là dei testi sull’Olocausto, scrive di chimica e scienza; Italo Calvino che mette la scienza in scena con Le cosmicomiche e ne teorizza la potenza letteraria con le Lezioni americane; e Gianni Rodari, cantore dei suoi tempi e in quanto tale innamorato della scienza e della matematica che sempre più entrano a far parte della vita delle nostre società e che, in fondo, non sono altro che un libro dei perché.
Parliamo della matematica di Gianni Rodari.
Parafrasando Pietro Greco, Rodari indaga il rapporto complesso e bidirezionale tra matematica e fantasia. Nella convinzione che non solo la matematica serve alla fantasia, ma che la fantasia serve alla matematica. C’è un libro imperdibile tra gli imperdibili libri di Rodari: Grammatica della fantasia, introduzione all’arte di inventare storie. Lì nel capitolo ‘La matematica delle storie’, si capisce che “è lecito partire da un ragionamento per trovare una favola, utilizzare una struttura logica per un’invenzione della fantasia”; ed è questo che auspicava Feynman: far diventare idee e strutture della matematica materia per la letteratura.
Proprio come lo sono l’amore, la guerra, la famiglia, l’odio e l’amicizia, così nelle pagine di Rodari lo diventano numeri, insiemi, congetture, notazioni e caos. Nello stesso libro, poi, una delle schede conclusive si intitola ‘Le storie della matematica’ e ci indirizza a leggere i giochi che i matematici inventano, come mappe per esplorare i loro territori o per scoprirne di nuovi e così facendo la matematica appare agli occhi del lettore come un’enciclopedia delle favole.
E questo è lo sguardo di un matematico!
Con questo stesso sguardo John Conway ha ideato nel 1970 Game of life (il gioco della vita).
Il “gioco” di Conway consiste nel simulare sul calcolatore la nascita, la trasformazione e il declino di una società di organismi viventi. Le configurazioni, inizialmente asimmetriche, tendono a diventare simmetriche. Il professor Conway le chiama: “l’alveare”, “il semaforo”, “lo stagno”, “il serpente”, “la chiatta”, “la barca”, “l’aliante”, “l’orologio”, eccetera. Egli assicura che esse costituiscono “un meraviglioso spettacolo da osservare sullo schermo del calcolatore”.
Uno spettacolo in cui, in fin dei conti, l’immaginazione contempla se stessa e le proprie strutture. Allo stesso modo Rodari sa parlare, nella poesia Insiemi, di un concetto intuitivo come quello di insieme, restituendoci l’emozione che dà a un matematico la possibilità di descrivere tutto nei termini degli insiemi, ma al tempo stesso la consapevolezza, ben nota ai matematici, che l’insieme degli insiemi non sia un insieme.
Lo consolava la matematica degli insiemi.
Riflettendo sui suoi casi facilmente scopriva
di far parte di numerosi insiemi così catalogabili:
l’insieme degli uomini nati nel 1920,
l’insieme degli uomini nati nel 1920 tutt’ora viventi,
l’insieme di tutti i nati,
l’insieme di tutti i mancini,
l’insieme degli epatopatici,
l’insieme degli addetti al commercio,
l’insieme degli addetti al lavoro,
l’insieme delle persone che portano l’orologio al polso,
l’insieme dei mammiferi,
l’insieme dei bipedi
(di questi due insiemi egli occupava saldamente
l’intersezione
senza l’imbarazzo di chi tiene il piede in due scarpe),
l’insieme degli abitanti della via Lattea,
la cui tabulazione sarà possibile
solo a completamento della sua esplorazione,
l’insieme di coloro che hanno schifo dei ragni (…)
Sempre nella Matematica delle storie, Rodari fa un passo avanti dagli insiemi alle relazioni e racconta la storia di:
“Il direttore didattico Giacomo Santucci, di Perugia, domanda regolarmente agli scolari di prima classe: «Tu hai un fratello?» «Sì». «E tuo fratello ha un fratello?» «No». È la bellissima e recisa risposta, nove volte su dieci”.
Quello tra Santucci e gli scolari è un allegro gioco dei quattro cantoni, ma il direttore con le sue domande sui fratelli non sta facendo altro che spingerli a introiettare la proprietà simmetrica di certe relazioni tra insiemi. Se aFb è la relazione “a è fratello di b”, possiamo dire che questa relazione è simmetrica perché aFb implica bFa.
E ovviamente viceversa. A questo serve la matematica nelle storie: introiettare concetti senza bisogno di spiegarli. Se prima i bambini introiettano idee matematiche con il racconto e la letteratura, dopo, quando ne ascolteranno la spiegazione, saranno facilitati nel farla propria. Leggete la filastrocca Il Trionfo dello Zero che ci parla dello zero e nel farlo ci restituisce il senso della notazione posizionale.
C’era una volta
un povero Zero
tondo come un o,
tanto buono ma però
contava proprio zero
e nessuno lo voleva in compagnia
per non buttarsi via.
Una volta, per caso,
trovò il numero Uno
di cattivo umore perché
non riusciva a contare
fino a tre.
Vedendolo così nero
il piccolo Zero
si fece coraggio,
sulla sua macchina
gli offerse un passaggio,
e schiacciò l’acceleratore,
fiero assai dell’onore
di avere a bordo
un simile personaggio.
D’un tratto chi si vede
fermo sul marciapiede?
Il signor Tre che si leva il cappello
e fa un inchino
fino al tombino...
e poi, per Giove,
il Sette, l’Otto, il Nove
che fanno lo stesso.
Ma cosa era successo?
Che l’Uno e lo Zero,
seduti vicini,
uno qua, l’altro là,
formavano un gran Dieci:
nientemeno, un’autorità!
Da quel giorno lo Zero
fu molto rispettato,
anzi da tutti i numeri
ricercato e corteggiato:
gli cedevano la destra
con zelo e premura,
(di tenerlo a sinistra
avevano paura),
lo invitavano a cena,
gli pagavano il cinemà,
per il piccolo Zero
fu la felicità.
Anche i numeri hanno le loro relazioni. La più sfuggente di tutte è l’uguaglianza, dal momento che un numero è uguale solo a se stesso: a=a. A ben vedere, però, è uno strumento potente: vi basta scrivere un’uguaglianza (vera) tra due numeri, per essere sicuri che le proprietà del primo valgono per il secondo e viceversa.
Immaginate di avere un numero misterioso che è al tempo stesso multiplo di 3, lo scrivete come 3n, e multiplo di 4, lo scrivete come 4m. Allora avete 3n=4m e la contemporanea appartenenza del numero alle tabelline del 3 e del 4, vi fa dire che deve essere un multiplo di 12: 0, 12, 24, 36, 48…
Cugina dell’uguaglianza è la disuguaglianza la quale nella raccolta Filastrocche in cielo e in terra è protagonista misteriosa di: Quanti pesci ci sono nel mare?
Tre pescatori di Livorno
disputarono un anno e un giorno
per stabilire e sentenziare
quanti pesci ci sono nel mare.
Disse il primo: “Ce n’è più di sette,
senza contare le acciughette”.
Disse il secondo: “Ce n’è più di mille,
senza contare scampi ed anguille”.
Il terzo disse: “Più di un milione!”
E tutti e tre avevano ragione.
Ma per introiettarli, i numeri possono anche essere inventati, come fa Rodari nelle Favole al telefono.
“Inventiamo dei numeri?”
“Inventiamoli, comincio io. Quasi uno, quasi due, quasi tre,
quasi quattro, quasi cinque, quasi sei”.
“È troppo poco. Senti questi: uno stramilione di biliardoni,
un ottone di millantoni, un meravigliardo e un
meraviglione”.
“Io allora inventerò una tabellina:
– tre per uno Trento e Belluno
– tre per due bistecca di bue
tre per tre latte e caffè
– tre per quattro cioccolato
– tre per cinque malelingue
– tre per sei patrizi e plebei
– tre per sette torta a fette
– tre per otto piselli e
risotto
– tre per nove scarpe
nuove
– tre per dieci pasta e
ceci.
“Quanto costa questa
pasta?”
“Due tirate d’orecchi”.
“Quanto c’è da qui a
Milano?”
“Mille chilometri nuovi, un
chilometro usato e sette
cioccolatini”.
“Quanto pesa una lagrima?”
“Secondo: la lagrima di un bambino capriccioso pesa
meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più
di tutta la terra”.
“Quanto è lunga questa favola?”
“Troppo”.
“Allora inventiamo in fretta altri numeri per finire. Li dico io,
alla maniera di Modena: unci dunci trinci, quara quarinci,
miri miminci, un fan dès”.
“E io li dico alla maniera di Roma: unzi donzi tenzi, quale
qualinzi, mele melinzi, riffe raffe e dieci”.
Rodari, poi, è anche un visionario matematico e le sue visioni, che fanno spesso capolino in luoghi inaspettati, accendono il lettore e lo fanno sentire parte della storia degli uomini. I visionari matematici capiscono qualcosa e, forse, non sanno nemmeno loro perché hanno capito quel qualcosa. La loro è un’intuizione che coglie un fatto scientifico o un’idea matematica e la trasforma in racconto che arriva al cuore e alla mente del lettore.
Voglio chiudere questo articolo con un esempio che amo molto e che si compone di due citazioni. La prima è tratta dal Saggio filosofico sulle probabilità di Pierre Simon Laplace, una delle menti scientifiche più importanti del XIX secolo, che propone un programma di ricerca tanto ambizioso quanto, oggi lo sappiamo, irrealizzabile: “Possiamo considerare lo stato attuale dell’universo come l’effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che ad un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi”.
La seconda citazione viene dalla Grammatica della fantasia di Rodari, che un secolo e mezzo dopo Laplace butta lì un esempio visionario con il quale ci mostra di avere capito molte cose:
“Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro.
Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo le alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, o microeventi, si succedono in un tempo brevissimo.
Forse nemmeno ad aver tempo e voglia si potrebbero registrare tutti, senza omissioni”.
Laplace sogna di conoscere il futuro a partire da un’informazione completa sul presente, ma Rodari gli risponde che si tratta di un sogno impossibile.
A mio parere, visioni come queste sono efficaci e aiutano la comprensione. Quella di Gianni Rodari è, per quel che ho capito io, una delle definizioni meglio riuscite di caos: ha colto nello stagno regole e regolarità che descrivono l’accadere di cose ovvie, pur nella consapevolezza che a ben guardare ne succedono anche altre inaspettate, inattese e imprevedibili.
D’altra parte, si sa: “c’era due volte il barone Lamberto…”.
Insomma, Rodari fa di noi dei piccoli vagabondi nella matematica: leggete i suoi libri e andate a zonzo tra le sue carte parlanti per imbattervi in idee e concetti che vi faranno apprezzare uno scorcio o un panorama sull’ordine e sul caos, se non a bordo di una gondola fantasma, magari a cavallo di una freccia azzurra.