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Insegnare a imparare. Il ruolo della scuola e dei docenti

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Insegnare a imparare. Il ruolo della scuola e dei docenti
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La scuola deve diventare “incubatrice di vocazioni” e fucina di apprendimento. Per questo gli insegnanti devono insegnare a imparare. Parola di Susanna Mantovani e Franco Lorenzoni

Ritengo che la cultura sia la chiave per l’avvenire. Parole di Paolo Budinich, il fisico che con la sua creatività instancabile ha contribuito a riscrivere la storia di Trieste, da ex città di confine a polo scientifico internazionale, fondando alcuni dei centri di ricerca che l’hanno trasformata nella “città della scienza”. Budinich considerava la conoscenza il vero il motore dello sviluppo, sociale ed economico, e in quanto tale un bene comune. «Mantenere il cervello attivo - diceva - è fondamentale, perché il cervello è come il ponte di comando per una nave: deve funzionare bene perché la nave vada per mare forte e sicura».

«Stay Hungry. Stay Foolish» sono invece le parole con cui nel 2005 Steve Jobs, il papà della Apple, si rivolse agli studenti e alle studentesse della Stanford University, nel giorno della loro laurea, esortandoli a seguire la propria curiosità e le proprie intuizioni e a non perdere mai la curiosità, la voglia di imparare e di mettersi in gioco.

Da queste parole partiamo per riflettere sul ruolo che la scuola ha e deve avere per costruire e diffondere cultura, alimentare curiosità, stimolare creatività e passione per la conoscenza. E a queste parole facciamo riferimento per immaginare come rimettere veramente al centro del percorso scolastico bambini e bambine, ragazzi e ragazze. Piero Calamandrei parlava della scuola come «incubatrice di vocazioni» e in quanto tale fucina di apprendimento. Ma come costruire insieme nuove strade di conoscenza?

Lo abbiamo chiesto a Susanna Mantovani, professoressa onoraria di Pedagogia all’Università Milano Bicocca, e a Franco Lorenzoni, per 40 anni maestro elementare e fondatore della Casa-Laboratorio Cenci, in Umbria, che organizza corsi di formazione per insegnanti e campi scuola per bambini.

Secondo la pedagogista, è importante investire sul metodo di studio, valorizzare quella didattica che promuove l’autonomia degli studenti e impostare, laddove ce ne fosse bisogno, recuperi personali mettendo al centro il dialogo con la classe per fare emergere esigenze e fragilità.

Del resto, abbandonati i programmi ministeriali prescrittivi di un tempo, «il curricolo di studi va elaborato in maniera sartoriale a misura della comunità che apprende» sottolinea Franco Lorenzoni che, per sperimentare modalità innovative, suggerisce di «mettersi in contatto con reti si scuole e realtà dove si fa ricerca e innovazione didattica, cogliendo anche le opportunità, nate in Rete, di formazione e condivisione di esperienze». L’Ocse a tal fine ha lanciato per esempio la piattaforma GLOBAL TEACHING INSIGHTS.

Il consiglio è di puntare a una didattica che si concentri sull’imparare a imparare, valorizzi le competenze trasversali e faccia leva su curiosità, motivazione e autonomia. Questo emerge anche dal progetto lanciato dall’Unesco con l’obiettivo di ripensare i modelli di apprendimento - Futures of education: learning to become - e dal report del World Economic Forum Schools of the Future, in cui si raccontano alcune esperienze di scuole innovative. Esperienze che evidenziano come qualsiasi ambiente possa diventare un ambiente di apprendimento, l’importanza del lavorare in gruppo, perché insieme si impara meglio, e dell’apprendimento attraverso il gioco e in generale il coinvolgimento attivo.

Come migliorare l'attenzione degli studenti

«Penso che il principale ostacolo all’imparare a imparare sia il triangolo infernale “lezione-memorizzazione-interrogazione”, cioè la scuola pigra della lezione frontale e della verifica, che chiede ai bambini un esercizio di memoria e non di ricostruzione della conoscenza attraverso la fondamentale ginnastica mentale» precisa Lorenzoni.

«Troppo spesso - continua - le discipline sono insegnate tutte allo stesso modo: si legge un capitolo o si ascolta una lezione, la si memorizza e poi con una verifica o un’interrogazione si certifica quanto appreso. Raramente si incontra la geografia come esplorazione dello spazio, e dunque uscita dalla scuola, osservazione di ciò che c’è intorno, disegno e realizzazione di mappe, o la storia come raccolta di documenti da rendere vivi con comparazioni e dialoghi…».

«E per l’apprendimento - puntualizza Mantovani - l’esperienza, il coinvolgimento diretto e la rielaborazione personale dei contenuti sono in effetti fondamentali».

L’invito è dunque di provare ad andare oltre la lezione frontale, oltre la lettura di un testo e la spiegazione dell’insegnante. Dinamica che tra l’altro richiede una notevole capacità di attenzione che mette a dura prova gli alunni, soprattutto alla primaria.

Perché, come spiega lo psicobiologo Alberto Oliverio nel libro Il cervello che impara (Giunti), nei bambini l’attenzione è di breve durata. Chi ha 6-7 anni comincia a distrarsi già dopo 15 minuti, mentre chi ha 15-16 anni è in grado di prestare attenzione per circa 30-45 minuti.

Per favorire l’apprendimento, quindi, a seconda dell’età, secondo Oliverio può essere utile fare pause frequenti, alternare argomenti e “codici” sensoriali, stimolare l’attenzione con l’aiuto di immagini, aneddoti e favorire l’assunzione di un ruolo attivo, perchè tanto più si è coinvolti in prima persona, tanto più l’attenzione è desta.

«Il coinvolgimento diretto è fondamentale, e partire dalle loro esperienze e dalle loro domande è un modo per stimolare curiosità e interesse. Sia chiaro - spiega Mantovani - senza voglia non si impara e per imparare a imparare ci vuole iniziativa e autonomia. Per questo è importante adottare modalità più attive e più attivanti che portino i ragazzi a lavorare autonomamente, a fare, a pensare, a osservare il mondo, in modo che siano attori del loro apprendimento». E allora, per esempio, si può chiedere di leggere qualcosa a casa per poi discuterne in classe, valorizzando l’interattività che solletica la responsabilità. Nell’ora di matematica perché non proporre ad alunni e alunne di inventare un problema? E affrontando un qualsiasi argomento, perché non chiedere quali associazioni suscita? «Ovviamente - puntualizza la pedagogista -  non c’è una ricetta per tutti, perché qualsiasi progetto educativo va calibrato sulla classe».

Per migliorare la capacità di concentrarsi in classe, Oliverio indica anche altre strategie alla luce di studi nel campo delle neuroscienze. Per esempio, scrive che dopo meno di 30 minuti di attività fisica aerobica (correre) la capacità di concentrazione migliora notevolmente: questo allora dovrebbe tradursi nell’anticipazione dell’ora di educazione fisica all’inizio della giornata scolastica o nel fare brevi pause di attività fisiche durante la giornata scolastica.

Del resto, anche cambiare posizione, mettersi seduti in cerchio, sedersi a terra, modifica l’attenzione. «È vero - commenta Lorenzoni - che si è spesso costretti a fare scuola dentro aule inadeguate, in edifici maltenuti o degradati, ma ciò non toglie che ogni luogo può essere vissuto in diversi modi e modificato almeno un po’». Progettare attivamente l’organizzazione degli spazi, dunque.

E a proposito di spazi, Mantovani ricorda l’importanza di uscire dalle aule, di fare lezione all’aperto. L’apprendimento si nutre infatti dell’esperienza, quindi è importante trovare modalità didattiche che valorizzino la scoperta dell’ambiente, del territorio, così come lo è coinvolgere la classe nel cogliere nessi tra discipline diverse: perché tutto può essere fonte di apprendimento e scoperta. La scuola, insomma, se vuole essere una palestra che allena al ragionamento, a un approccio critico nei confronti della realtà, se vuole fornire strumenti per comprenderla, deve andare oltre il nozionismo e stimolare l’osservazione del mondo.

Mettere le mani in pasta

Oltre la lezione frontale, dunque. Ma anche oltre il libro di testo. «Io - racconta Lorenzoni - ho avuto la grande fortuna di essere stato allievo di Emma Castelnuovo alle medie e so bene che la costruzione delle conoscenze matematiche si può avvalere grandemente dal manipolare figure in movimento realizzate con spaghi, elastici e listelli e allora, forse, l’aula di matematica potrebbe somigliare a una piccola falegnameria».

In effetti Castelnuovo, che ha rivoluzionato il modo di insegnare la matematica, invitava a mettere al bando il nozionismo e ad andare oltre i concetti astratti, convinta che ben prima di regole e definizioni da imparare a memoria, fosse importante stuzzicare la curiosità dei bambini partendo dal concreto e trasformando le aule in officine dove usare le mani e la testa.

Ma anche la Rete apre spazi per andare oltre il nozionismo, e va valorizzata come risorsa per fare scuola in modo nuovo, come attrezzo - in una scuola che è laboratorio di idee e palestra di apprendimento - che può offrire opportunità di apprendimenti informali, creativi e multidisciplinari. E così, per esempio, lo studio delle piante potrebbe essere l’occasione per incontrare su una piattaforma online chi, come Barbara Mazzolai, si ispira proprio alle piante per progettare i robot del futuro, oppure un video del fisico Carlo Rovelli potrebbe avviare in classe una riflessione sulla scienza. «È quello che abbiamo fatto anni fa in una quarta elementare - racconta Lorenzoni -: il video di una sua conferenza, interrotto per essere spiegato e discusso, ha innescato nei bambini dei ragionamenti su cosa sia una rivoluzione scientifica e delle domande straordinarie. Ed è responsabilità di noi insegnanti suscitare domande, coltivare passioni, alimentare curiosità».

In fondo, andare oltre le nozioni significa anche accogliere le passioni degli studenti. E allora, «se come diceva Calamandrei la scuola deve essere incubatrice di vocazioni - continua Lorenzoni - lasciamo che chi è appassionato di musica, fumetti o serie tv, condivida il suo interesse, perché non dobbiamo sottovalutare che gli stimoli non arrivano solo dagli insegnanti ma anche dai compagni».

«Anche i compagni di classe possono infatti influenzare interessi e  rendimento scolastico di uno studente» aggiunge Mantovani, sottolineando l’efficacia che può avere il tutoraggio. «I ragazzi possono fare grandi cose insieme: chi è più avanti può aiutare chi è un po’ indietro e questa pratica può essere anche un’occasione di educazione civica, per sviluppare il senso di responsabilità verso l’altro».  La classe, insomma, deve essere un ambiente cooperativo.

Migliorare le competenze sociali

Ma andare oltre le nozioni significa anche accompagnare gli studenti nello sviluppo di quelle competenze trasversali, che in inglese vengono definite soft skill, character skill o non-cognitive skill, che hanno a che fare con il temperamento, le competenze di socialità, di leadership, fondamentali per sapere agire e non solo per sapere. E che, insieme alle competenze digitali, sono considerate essenziali per il futuro lavorativo, ma non solo.

D’altro canto promuovere le competenze prosociali può servire anche a migliorare le dinamiche relazionali in classe. E allora Oliverio nel suo libro illustra alcune attività per lavorare sulle emozioni, saper riconoscere il proprio stato d’animo, comprendere quello degli altri e trovare le parole per comunicarlo.

L'importanza del gioco

Anche giocare serve allo scopo. I giochi di movimento e di ruolo, secondo lo scienziato, sono essenziali per la costruzione della cosiddetta intelligenza emotiva - la capacità di leggere le emozioni altrui - e per la socializzazione. Giocando, si imparano le regole di gruppo, il rispetto dei ruoli, le conseguenze delle proprie azioni. Capacità utili anche oltre il contesto ludico. Ma giocando si possono anche favorire apprendimenti specifici: per esempio nel percorso di avvicinamento a una nuova lingua, si può giocare al pilota che deve comunicare in inglese con la torre di controllo o fare finta di essere in viaggio e via dicendo. Insomma, come diceva la pedagogista Maria Montessori, «per insegnare bisogna emozionare», in disaccordo con chi riteneva «che se ti diverti non impari». Perché non è da sottovalutare come un clima gioioso e sereno in classe possa favorire l’esperienza di apprendimento. E, al contrario, l’ansia possa ostacolarlo. Lo spiega bene Oliverio: «le emozioni interferiscono con l’attenzione, con l’ansia diminuisce».

Il punto è che impostare un modo nuovo di fare e vivere la scuola è una sfida, ma «lì dove insegnanti hanno passione e talento, lì dove viene proposto lo studio come conquista e invenzione, gli studenti danno tanto e sono vitalissimi». Ne è convinta Dacia Maraini  che ha raccolto questa e altre riflessioni nel libro La scuola ci salverà (Solferino): la scuola, per la scrittrice, è il futuro perché è a scuola che si insegna e si impara a essere persone responsabili.

E la valutazione?

Non c’è scuola senza valutazione. Ma di quale valutazione hanno bisogno gli studenti? Secondo la pedagogista Susanna Mantovani è importante «spiegare agli alunni come vengono valutati e perché, che valutando la prestazione scolastica non state valutando loro come persone e che una valutazione non piena indica la strada per impegnarsi di più. Non date per scontato che lo sappiano. Spiegatelo, perché hanno il diritto di saperlo, può essere motivante per prepararsi adeguatamente e perché sapere di essere valutati con equità attiva energie positive e il loro senso di responsabilità». «Ma date anche questo messaggio ai vostri studenti - dice -: come nello sport, anche a scuola l’allenamento è importante. In altre parole, la motivazione deve essere alimentata da un lavoro sistematico»

Infine, il pensiero computazionale...

Ci vorrebbe il maestro Manzi del digitale e bisognerebbe insegnare a scuola il pensiero computazionale. Perché le competenze digitali e la capacità di problem solving non possono mancare nella cassetta degli attrezzi dei ragazzi e delle ragazze. Ne è convinta Tiziana Catarci, che dirige il Dipartimento di Ingegneria Informatica, Automatica e Gestionale alla Sapienza di Roma e promuove attività per avvicinare i giovanissimi, e in particolare le giovanissime, all’informatica e al coding.

«Introdurre a scuola il pensiero computazionale significa dare loro uno strumento per analizzare e risolvere i problemi che incontreranno anche al di fuori dalle aule scolastiche, è un modo per imparare a imparare, perché il pensiero computazionale aiuta a sviluppare capacità logiche, addestra al ragionamento».