Sono cresciuti a pane e tablet, hanno sviluppato un nuovo modo di vivere, comunicare e gestire i sentimenti rispetto al passato. Sono i ragazzi della Generazione Z, conosciuti anche come Zedders, nati tra il 1995 e il 2010. Protagonisti di un salto generazionale diverso dal consueto, sono stati i primi, nella storia dell’umanità, ad avere avuto l’accesso a Internet sin dalla nascita.
Mentre, infatti, i Millennials, nati dopo il 1980, che sono diventati grandi nei primi 15 anni circa del nuovo millennio, hanno costruito il proprio passaggio all’età adulta tra l’analogico e il digitale, trascorrendo, al pari dei padri, un’infanzia senza una presenza così ingombrante di smartphone e social network, lo stesso non può dirsi per loro. La GenZ considera la navigazione nel web parte integrante della propria quotidianità e percepisce i device digitali quasi come un’estensione del corpo. Più che per tutti gli altri, i media costituiscono, dunque, un elemento identitario fortemente strutturale del loro quotidiano.
VIVERE NELL'ONLIFE
Considerate queste premesse, ci si può rendere conto meglio perché, a proposito della Generazione Z, si faccia riferimento al concetto di “fluidità” in rapporto al labile confine che intercorre tra la comunicazione in Rete (online) e la vita reale, materiale e analogica (offline). Luciano Floridi nel 2015 aveva definito questa situazione come l’era dell’onlife, un’esperienza di vita ibrida che scorre legata a dispositivi interattivi. Prendere coscienza che la crossmedialità, cioè la possibilità di interazione tra mezzi comunicativi, abbia reso l’ambiente digitale una vera e propria dimensione esistenziale è un passo iniziale necessario per riconoscere e analizzare le nuove frontiere della comunicazione d’odio, confini che i nostri ragazzi attraversano con una frequenza preoccupante e spesso senza rendersene conto.
ODIO... INCONSAPEVOLE
Infatti, l’hate speech o discorso d’odio non solo è fortemente amplificato dalle possibilità offerte dalla Rete, ma da quest’ultima è reso anche ambiguo, opaco e multisfaccettato. Pensiamo, per esempio, ad alcuni elementi visivi, innocui solo in apparenza, come i meme, contenuti virali solitamente costituiti da un disegno o da una foto seguiti da un motto o espressione che immediatamente diventano un’entità di informazione replicabile per suscitare una determinata emozione, catturare l’attenzione e trasmettere ideologie. Insieme al black humor presente in Rete e alle immagini ironiche rappresentano stratagemmi per banalizzare i contenuti d’odio, spesso mascherati perfettamente anche con funzionalità commerciali. Vista la dimensione assunta dal fenomeno, alcune domande sorgono spontanee.
Sappiamo riconoscere, o perlomeno distinguere, un meme da una vignetta? Come e quando è avvenuto il passaggio da dispositivo ironico a principale veicolo d’odio verso l’altro? La condivisione senza presa di coscienza fa sì che l’utente diventi un prosumer, letteralmente un “produttore e consumatore” di un’idea, di un’informazione che non governa più attivamente, ma che rilancia in un circuito infinito di rimbalzi sul web. Spesso, per i più giovani, l’essere un prosumer è la prima vera azione d’odio, un’azione non gestita perché non riconosciuta.
POCHE O TROPPE PAROLE?
Come abbiamo già detto, l’hate speech ha trovato nei social network un’enorme cassa di risonanza. La Rete, in quanto strumento facilitatore dell’odio, ha sdoganato la figura dell’hater, l’odiatore di professione, e allargato a dismisura la platea delle sue potenziali vittime. Complice il presunto anonimato dietro il quale pare possibile nascondersi e, di riflesso, la presunta impunibilità a cui ciò rimanda. Il sillabario delle intolleranze dell’hater si alimenta di pregiudizi, superficialità e, soprattutto, d'ignoranza. Esiste infatti uno stretto legame tra il livello di istruzione e la percezione che si ha sulla gravità dell’hate speech. D’altra parte, Simone Weil, in uno dei suoi libri più importanti, La persona e il sacro, ha scritto che «là dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero».
Probabilmente si è persa di vista una verità essenziale. Le parole non sono solo parole. Qualunque spiegazione si possa dare del sostantivo “parola” è innegabile che non possa essere circoscritta alla definizione di semplici suoni e sillabe la cui articolazione delinea persone, animali, cose e rende possibile esplicitare ogni ineffabile sentimento o emozione che alberga nell’animo umano. Tra le definizioni più pregnanti, ci piace riportare quella che un’importante sociolinguista italiana ha affidato di recente a Facebook. Vera Gheno, in un post del 4 novembre 2020 ha così scritto:
«Penso che, dato che le parole ci servono per concettualizzare la realtà (“traduco” la realtà che mi circonda in parole, e così divento capace di pensarci e di parlarne con gli altri), possedere una competenza linguistica più ricca offra la possibilità di avere in testa reti semantiche più fitte, con maglie più strette. Di conseguenza, quando la realtà passa tramite il setaccio della competenza linguistica, chi ha una rete dai nodi più ravvicinati “trattiene” più elementi della realtà, e così può ambire a comprenderla meglio».
POVERTÀ DI LINGUAGGIO? NON PROPRIO...
Ma perché l’hate speech esercita tutta questa seduzione sulla Generazione Z (e non solo)? Come in un gioco di scatole cinesi, la risposta rimanda essa stessa a un’altra domanda: quante sono le parole che utilizzano abitualmente i nostri ragazzi? I dati raccolti grazie alle indagini Istat e alle rilevazioni OCSE-Pisa più recenti ci dicono che gli studenti delle scuole superiori fanno ricorso a un linguaggio povero.
I numeri mettono in evidenza che nel nostro Paese abbiamo sacche di analfabetismo strumentale, funzionale e di ritorno sempre più ampie e resistenti. Ne sono coinvolti ormai il 47% della popolazione e 1 giovane su 6. Questo spiega come sia possibile che, tra gli studenti, 1 su 4 non sia in grado di comprendere qual è l’argomento principale di un testo di media lunghezza; o perché tra i quindicenni riesca a distinguere i fatti dalle opinioni solo 1 su 20, cioè un misero 5%.
Sicuramente, quando parliamo dei teen cediamo a molti luoghi comuni. Nel riferirci alla limitatezza dei loro vocabolari, confondiamo lingua e codice linguistico. Non riconosciamo cioè che la Generazione Z possieda uno slang ricco di parole in continua evoluzione, plasmato dall’uso costante di Internet e dalle necessità comunicative dell’oggi. Caratterizzato da abbreviazioni, simboli e neologismi immediati, esso è infatti fortemente influenzato dalla socialità del web e dalle sfide imposte dal mondo iperconnesso nel quale si trovano a vivere. Un codice identitario e autoaffermativo, ricco di elementi nuovi che, analizzato da un’altra prospettiva, ci dice di un “e-taliano”, come lo ha definito il linguista Giuseppe Antonelli, duttile e funzionale. Tuttavia, questo stesso codice è anche incompleto. L’incompletezza, in effetti, è la caratteristica portante del loro linguaggio, fatto questo del tutto naturale, visto che il texting di riferimento è frammentario e dipendente, in larga parte, da tutto ciò che sta al di là delle parole.
TORNARE A RIFLETTERE SULLE PAROLE
La sfida che ci troviamo ad affrontare non riguarda dunque la quantità di vocaboli ed espressioni di cui la Generazione Z dispone, quanto piuttosto la loro qualità. È come se i vocaboli avessero ceduto parte delle loro molte valenze semantiche, della loro ricchezza connotativa. «L’ipersemplificazione del linguaggio giovanile - annotava Zygmunt Bauman in Elogio della letteratura, scritto insieme a Riccardo Mazzeo, ha portato - all’erosione, ripiegamento, assottigliamento» delle parole; alcune, addirittura, “«tendono a essere abbreviate e a ridursi a una serie di consonanti».
Dall’orizzonte comunicativo dei giovanissimi sta scomparendo, insomma, lo spazio metalinguistico della riflessione. Considerate queste premesse, è facile comprendere perché si facciano sedurre così facilmente dai linguaggi di incitamento all’odio.
Abituati a una «vita comunicativa [che] passa attraverso materiali grezzi, irriflessi e intercambiabili», scrive l’opinionista e docente di diritto Mauro Barberis, i ragazzi faticano a comprendere il peso specifico che ogni singola parola porta in sé e le conseguenze di un suo uso sbagliato o riprovevole (Come internet sta uccidendo la democrazia. Populismo digitale, Chiarelettere, 2020).
L'INCIDENTE DELL'HATE SPEECH
Dovremmo tenere sempre a mente che un discorso di odio è molto di più di una parolaccia. Da un punto di vista linguistico, come ribadiscono anche gli ultimi interventi di Federico Faloppa, docente di storia della lingua italiana e sociolinguistica, non è semplice definire in breve le caratteristiche dell’hate speech.
Certamente, vi ricorrono sostantivi e aggettivi connotati in modo negativo, che servono per categorizzare ed esprimere giudizi su un individuo o un gruppo. Ma è ricorrente anche la negazione dei punti di vista, senza dimenticare gli elementi sovralessicali come l’ironia, difficilissimi da individuare automaticamente. Crescere con la tecnologia non rende i nativi digitali automaticamente alfabetizzati digitali. Non garantisce che siano in grado di esercitare, con coscienza e accortezza, gli inalienabili diritti-doveri che sono alla base di un’autentica cittadinanza digitale. A tal proposito, uno dei primi a segnalare questa criticità fu il giurista e accademico Stefano Rodotà.
Prima ancora di analizzare le varie forme attraverso cui il discorso d’odio si manifesta nell’onlife, come sottolinea il report del 2019 di Parole O_Stili sull’odio e la falsità in Rete, occorre riflettere sull’incompletezza lessicale-sintattica dei giovani hater. Ricostruire i passaggi mancanti dell’atto comunicativo ci consentirà infatti di sensibilizzare davvero la Generazione Z sui rischi non innocui in cui possono imbattersi durante la navigazione in Rete. A partire, per esempio, dal non essere “banali” prosumer e condividere a raffica contenuti solo in apparenza inoffensivi.
Per comprendere che cos’è un discorso d’odio dobbiamo immaginarcelo come un incrocio stradale. Quest’immagine, codificata dalla giurista e attivista Kimberlé W. Crenshaw per descrivere l’intersezionalità dell’hate speech, ci permette di capire, che l’odio non si manifesta mai in compartimenti stagni.
Esattamente come in un incidente stradale, la discriminazione è causata da più caratteristiche che vengono messe in gioco in simultanea. Per intenderci: “Ti odio perché sei donna, sei nera o sei una donna nera?”. È importante abituare i giovanissimi a sviluppare competenze di comunicazione e interpretazione in questa direzione, cioè rendere più consapevole la loro percezione dei vari livelli utilizzati dal discorso d’odio nei media.
IO, NOI, L'INVENZIONE DELL'ALTRO
Le conseguenze dei discorso d’odio possono essere molto gravi. L’uomo è, per definizione, un animale sociale. Da sempre abbiamo bisogno di uno scambio continuo e incessante con i nostri simili. La maggioranza non può fare a meno di partecipare alla vita di una comunità, dalla più piccola, quella costituita dal nucleo familiare, ad aggregazioni via via più ampie. Collaborazione, lealtà, solidarietà dovrebbero essere i pilastri di ogni relazione umana, eppure non tutti sono in grado di rapportarsi all’altro in maniera equilibrata e corretta. Ci sono infatti persone che, senza alcun motivo, prevaricano i propri simili. Mettono in moto quello che il Nobel Toni Morrison ha chiamato alterizzazione, il «processo di invenzione dell’altro».
Nei casi più gravi, i processi che si innescano mettono in moto il fenomeno della deumanizzazione, un vocabolo coniato per indicare l’insieme dei comportamenti e delle parole incendiarie, di odio, dileggio, discriminazione, criminalizzazione, di cui ci si serve per cancellare, nei nostri simili, l’essenza dell’umano. L’Altro viene percepito, tutto a un tratto, come una minaccia incombente, un estraneo che può metterci in pericolo. Addirittura, attentare all’incolumità nostra e dei nostri cari. Non ci resta dunque che reagire isolandolo, aggredendolo, eliminandolo.
Come ci ricorda Chiara Volpato, tra i massimi esperti di questi processi, l’hate speech ha un ruolo fondamentale nella deumanizzazione. Anni di studi e ricerche, confermano infatti che sono le parole il primo strumento di cui ci serviamo per erodere l’umanità dell’Altro, per intaccarne la dignità.
LE NUOVE FRONTIERE DELL'HATE SPEECH
All’interno dell’ambiente digitale trovano terreno fertile le cosiddette hate words, cioè tutti quei termini fastidiosi e offensivi che provocano dolore a un singolo individuo in quanto sono dispregiativi. Qualche esempio? “Frocio”, “puttana”, “vacca”, “troia”, “zoccola”, “giudeo” eccetera.
Si tratta di espressioni legate a stereotipi negativi che riguardano l’etnia, la religione, la posizione lavorativa, le diversità e disabilità fisiche, gli apparati sessuali, gli orientamenti sessuali e così via. Particolare rilevanza, all’interno di questo macro gruppo, hanno gli slurs (o slurring terms), gli epiteti denigratori e discriminatori che offendono una persona in quanto appartenente a un gruppo, identificato di solito in base a ragioni etniche, provenienza geografica, orientamento sessuale, credenze religiose eccetera. L’esempio emblematico è il termine “negro”, che nel corso del tempo ha saputo caricarsi di un significato non più discriminatorio ma di forza e unità comunitaria, come identificatore di fiera appartenenza (nigga).
Queste riflessioni ci permettono di comprendere che il contenuto dispregiativo dell’hate speech e delle hate words dipende oltre che da come vengano usate anche dalle caratteristiche dei contesti d’uso. Pensiamo al ricorrente “bitch” nelle canzoni trap. Non sempre, è un termine offensivo: Chadia Rodriguez, nel singolo Bitch 2.0, utilizza il termine per descrivere sé stessa in modo da contrapporsi all’utilizzo che ne fanno i colleghi dell’altro sesso, decisamente denigratorio. L’obiettivo dell’educazione alle parole offensive, online e offline, non è quello di eliminarle dal vocabolario giovanile, ma di far comprendere le sfumature che possono acquistare a seconda dei diversi contesti di riferimento.
Per esempio, distinguere una situazione ludica, qual è quella che può crearsi tra compagni di classe o tra fidanzati, da una all’interno della quale l’ironia potrebbe risultare ambigua perché non regolata appunto dal contesto.
CYBERBULLISMO E DINTORNI
Vi sono alcuni elementi presenti nel discorso d’odio in Rete da tenere in considerazione per spiegare l’evoluzione del cyberbullismo negli ultimi anni. Analizziamoli da vicino. Tra i più importanti vi sono la permanenza e il ritorno.
L’odio online nelle sue forme (post, immagini, commenti, eccetera) può rimanere attivo per lunghi periodi di tempo e anche se rimosso ritornare sul web sotto diversa forma o titolazione. Abbiamo tuttavia già detto che la caratteristica forse più importante è quella legata all’anonimato. Il cyberbullo e i suoi alleati possono agire in qualunque momento, senza alcun limite geografico e soprattutto possono approfittare della loro “invisibilità” per agire in modo distruttivo: la sfera dell’online favorisce infatti un alto livello di disinibizione.
Le sfumature del cyberbullismo sono moltissime. Riportiamo di seguito quelle che, secondo noi, dovrebbero essere poste sotto una lente di ingrandimento più sofisticata, data la velocità con cui sui social prendono direzioni diverse.
LA CASA DELLE PAROLE: L'IMPORTANZA DELLA LETTURA
La scuola è la casa delle parole. È il luogo dove chiunque può ampliare e consolidare l’alfabeto della socialità e dell’affettività. Soprattutto, però, è lo spazio all’interno del quale accade anche qualcosa di unico. Di solito, è dentro il suo perimetro che avviene l’incontro più proficuo con quei libri che chiamiamo classici, le opere immortali che ci consentono di entrare in contatto, in maniera intima e profonda, con l’essenza dell’umano. La scuola può offrire un argine importante ai discorsi e ai fenomeni dell’odio e aiutarci a contrastarli.
Riportare i classici al centro dell’attività didattica assolve infatti un duplice scopo. Riconsegna agli adolescenti un numero crescente di vocaboli e restituisce loro il gusto per la riflessione. Crea, in altri termini, un sistema di contrappesi necessario a ridare completezza e compattezza all’ordito comunicativo giovanile e a sottrarlo dal giogo dell’immediatezza e dell’indeterminatezza semantica.
Mediante la lettura, la parafrasi, il commento, l’interpretazione delle opere dei grandi autori, i ragazzi sono messi nelle condizioni di comprendere il valore delle singole parole e tornare a maneggiarle con cura. Gli studi neuroscientifici sul “cervello che legge” (Maryanne Wolf) e sui neuroni in attività durante la lettura (Stanislas Dehaene) confermano che esiste un rapporto di causa ed effetto tra «la qualità della lettura e la qualità del pensiero». Ci dicono, inoltre, che solo una lettura profonda, lenta, meditata è in grado di assicurare la crescita cognitiva, intellettiva, affettivo-relazionale ed etica di noi esseri umani.
LIBRI PER APPROFONDIRE
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