La distruzione degli ebrei d’Europa, decisa e pianificata dal regime nazista e quasi portata a compimento in un arco di tempo che va dal gennaio del 1933, quando la dittatura prese il potere in Germania, alla primavera del 1945, con la fine della Seconda guerra mondiale, oggi rappresenta il genocidio per eccellenza nell’intero XX secolo. L’impatto storico di ciò che oggi per convenzione viene chiamata «Shoah» è decisivo per comprendere quella parte di Novecento, ma non solo: ha avuto strascichi e ripercussioni nei decenni successivi.
La Shoah, così difficile da immaginare, così apparentemente inspiegabile, nel tempo ha via via mutato il suo valore. Dentro e fuori dalle scuole, da fatto storico è divenuta fatto simbolico, ispirazione per ogni similitudine sul male, pietra di paragone per qualsiasi sterminio successivo.
Di fronte ai segni lasciati dal passato, di fronte allo sterminio, mi chiedo spesso se non sarebbe più rispettoso il silenzio, più rispettoso di ogni altra forma di ricordo. Tacere davanti a ciò che accadde. Farsi muti al cospetto di un’enormità che le parole, per quanto si sforzino, non riescono a contenere. Interrompere incontri e conferenze. Chiudere i libri.
Mi chiedo se nel Giorno della memoria non sarebbe il caso di passare un’intera giornata in silenzio. E dedicare quel silenzio a chi non c’è più. Mi chiedo se, quando incontro un gruppo di studenti di una scuola, non potrei restarmene in silenzio e chiedere a loro di rimanere in silenzio. Così. Per due ore muto davanti a loro muti. Sempre che ci si riesca. E alla fine annunciare che l’ho fatto perché davanti a un vuoto così grande il silenzio è l’unica risposta. Vedo già gli insegnanti terrorizzati. E sarei terrorizzato anche io, perché il silenzio fa paura. O forse perché il silenzio non basta.
È possibile fare silenzio senza rimanere zitti? Se percorriamo la storia a ritroso e ritorniamo per alcuni istanti a quegli anni, notiamo poi che gli anni della Shoah sono accompagnati a braccetto da un terribile mutismo. Un mutismo che ha contraddistinto gli eventi che hanno portato al potere i regimi dittatoriali in Germania e in Italia, che ha ammantato le scelte razziste di quei regimi, che ha lasciato soli gli ebrei. Il silenzio è stato indifferenza, e ha reso più semplice e tollerabile il compito dei tanti collaboratori affiliati ai regimi.
Tra i molti aspetti della libertà che viviamo oggi ce n’è poi uno al quale non si pensa spesso: la libertà di ricordare e raccontare. Oggi possiamo ricordare e raccontare il passato. Non soltanto il passato personale, di ciascuno di noi, le nostre origini. La nostra identità. Ma anche il passato della collettività, della nostra comunità, della nostra nazione. Possiamo interrogarci, ricercare, trovare lati oscuri e metterli di fronte a tutti, convinti di poter apprendere, di migliorare per contrasto con gli errori di ieri.
Nello sterminio nessuno ha un nome. Non hanno un nome le guardie dei lager, e vengono chiamate solo per la funzione che ricoprono: questo anonimato garantisce loro un bassissimo grado di responsabilità. Non sono individuabili, non sono nemmeno più individui. Sono funzioni all’interno di un meccanismo, e come tali sentono di non avere alcuna responsabilità, e ancor meno colpe. Di cosa vogliamo riempire questo silenzio? Qual è la prima cosa che desideriamo ascoltare dal passato? Qual è la prima che desideriamo ricordare?
Io credo che occorra salvare anzitutto i nomi. Il nome è l’identità di una persona. Il nome è come una porta che apre alla storia di una persona. Il nome identifica il corpo di una persona, ne è inscindibile. Significa considerare un altro come persona e non come straniero. E significa smettere di ritenere, come già prospettava Primo Levi nel 1958, che «ogni straniero è nemico».
Fare memoria è qualcosa di pragmatico anche nella sua realizzazione educativa: non significa recuperare dalla storia i buoni propositi che ci vengono dal passato, insegnamenti edificanti, idee o ideali. Significa conoscere l’assenza da vicino. E quell’assenza è fatta di nomi, di corpi, di storie. Fare memoria significa conoscere nomi, conoscere storie. E conoscendoli, provare a salvarli perlomeno dall’oblio. Là dove i corpi non si possono più salvare.
Per approfondire: Matteo Corradini, Tu sei Memoria. Didattica della Memoria: percorsi su ebraismo e Shoah, Centro Studi Erickson