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Copiare a scuola? È come vincere col doping

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Copiare a scuola? È come vincere col doping
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Fare i furbi tra i banchi priva i ragazzi di una tappa importante del proprio percorso formativo e incrina il rapporto di fiducia all'interno dell'ambiente classe

Ha fatto scalpore la notizia di uno studente che è stato denunciato sui social dalla propria professoressa, dopo che quest’ultima si era accorta che il suo compito di Italiano era stato copiato totalmente da Internet. Insomma, un’operazione di “taglia e incolla” scoperta all’origine che ha prodotto grande clamore e si è ritorta sia sullo studente sia sulla stessa docente. Nel dibattito pubblico le voci si sono alzate in direzione opposta: chi si è schierato con lo studente (non si può rendere pubblico un documento privato che attiene al rapporto di fiducia tra studente e docente); chi si è schierato con la professoressa (la scuola deve essere una palestra in cui si impara la vita e copiare è fuori da ogni regola).

La questione esiste da sempre. Quando in ballo c’è una valutazione, alcuni studenti trovano mille sotterfugi per ottenere il massimo con il minimo sforzo: non conta il percorso, conta il risultato. Un po' come uno sportivo che scende in pista sapendo di essersi sottoposto a “doping”. L’eventuale medaglia che si troverà appesa al collo sarà il risultato di un imbroglio. Anche se nessuno lo viene a sapere, ottenere un risultato trasgredendo le regole resta una questione complessa che ha molte implicazioni sia sul piano personale che su quello comunitario.

Copiare è sempre sbagliato. Gli studenti dovrebbero vivere le valutazioni come una parte del proprio percorso formativo. Ci si prepara, ci si fa valutare, si riflette a posteriori su come sono andate le cose. Ottenere una valutazione positiva è l’aspirazione di tutti. Ma anche la valutazione negativa, in una prospettiva educativa, assume un significato importante: ti permette di riflettere sugli errori che hai fatto e di individuare la zona in cui c’è bisogno che tu ti fortifichi. Insomma, “si impara dagli errori”. Naturalmente, questo funziona bene in un’ottica educativa e promotiva, in cui la valutazione negativa fa parte di un percorso in cui ci si mette in discussione, si lavora per il proprio automiglioramento, si è aperti al dialogo critico e costruttivo con il valutatore che viene vissuto non come un soggetto sadico che ti mette nelle condizioni di fallire, ma come un adulto competente che ti allena lungo un percorso in cui cadute e sconfitte fanno parte del gioco.

In questa logica, “copiare” non solo non serve a nulla, ma va a incrinare il rapporto di dialogo e fiducia tra studente e docente. Inoltre, in adolescenza, quando il soggetto è tenuto a conquistare competenze per la vita che lo rendano affidabile e responsabile, ottenere un successo scolastico attraverso un imbroglio denota due aspetti: l’approccio infantile al percorso scolastico (ciò che conta è avere un buon voto, non come lo ottengo), la credenza che il successo nella vita sia il risultato di furbizia e non di competenza. Entrambi questi elementi ci indicano un soggetto connotato da immaturità, mentre in adolescenza ciò che chiediamo ai nostri studenti è di mettersi in gioco con maturità nelle sfide che la vita propone loro (non per niente, l’esame di stato viene anche definito “prova di maturità”).

Educare alla responsabilità. C’è poi un’implicazione collettiva e sociale che non va trascurata: quando il docente sanziona uno studente che ha copiato – avendone intercettato il gesto maldestro – si fa garante di un principio di giustizia con cui gli studenti devono confrontarsi non solo a scuola, in occasione delle valutazioni, ma per il resto di tutta la vita. Quando parteciperanno a prove pubbliche, concorsi ed esami l’eventuale copiatura o trasgressione delle regole imposte comporterà l’immediata eliminazione del candidato dal processo di selezione.

Le scuole straniere hanno codici comportamentali molto rigidi nei confronti di studenti che si sottopongono a test ed esami, ricorrendo all’imbroglio o alla copiatura del compito. Ciò che serve a chi cresce è diventare consapevole che il rispetto della regola non è un pre-requisito necessario per evitare di incorrere in sanzioni e punizioni molto rigide. Bensì l’esatto contrario: ovvero che sanzioni e punizioni molto rigide servono a tutelare il diritto di tutti di “muoversi” in un contesto che garantisce a tutti uguali opportunità di crescita e di successo. Un contesto, cioè, dove la regola “del furbetto” non è premiante per nessuno, anzi.

Questi temi che spesso vengono presi sottogamba dalla famiglia e a volte dagli stessi educatori bollandoli come “cose da ragazzi” dovrebbero invece entrare a pieno diritto nelle aule scolastiche all’interno dei programmi di educazione civica, di cittadinanza attiva, di educazione alla legalità. Il rischio in un caso come quello che ci racconta la cronaca è che l’unica persona a essere sanzionata sia la docente, che chiaramente ha commesso un errore clamoroso diffondendo nei social qualcosa che doveva rimanere privato.

Nell’invisibilità, invece questo caso avrebbe dovuto portare ad aprire con i ragazzi e con le loro famiglie un dibattito intorno a una questione ugualmente urgente e fondamentale dal punto di vista educativo: si può diventare grandi e conquistare un proprio posto nel mondo utilizzando strategie che trasgrediscono in modo palese le regole su cui si fonda la trasparenza dell’esperienza scolastica e della sua valutazione. Il dibattito è aperto: un dibattito in cui al centro non deve esserci la domanda “Di chi è la colpa?”, bensì deve esserci il quesito: “Come si educa e si forma la responsabilità individuale e collettiva?”.

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