Competenze non cognitive, life skills, soft skills…oltre il tema della denominazione c’è molto di più. Nel testo ufficiale della proposta di Legge sono identificate come abilità trasversali agli apprendimenti, “spendibili” anche e soprattutto fuori dalla classe. La flessibilità, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la capacità di interazione, e ancora, la creatività, solo per fare qualche esempio, consentono infatti agli individui di adattarsi e comportarsi positivamente per poter affrontare le sfide della vita in modo efficace. L’importanza del “comportamento positivo e di adattamento” è evidenziato in modo particolare in uno dei riferimenti fondamentali per la definizione delle life skills, presentato dal dipartimento di Salute mentale dell’Oms (Life skills education for children and adolescents in schools, 1993).
Non è difficile comprendere questa linea se consideriamo che la ricerca neuroscientifica degli ultimi anni ha confermato che i tratti di personalità non sono affatto predeterminati, ma flessibili e influenzabili dalle pratiche educative. Simona Favari, dirigente scolastica in Emilia Romagna e formatrice, impegnata nel coordinamento di un progetto per la costruzione di un curricolo verticale delle life skills, in collaborazione con l’Ausl di Piacenza, spiega che le competenze non cognitive «sono state gradualmente associate al concetto di character, inteso come capacità di vivere all’interno di un gruppo sociale, di condividere valori comuni, di sviluppare corretti stili di vita e senso di responsabilità». Educare il character, dunque, «significa mobilitare atteggiamenti che favoriscano l’abitudine alla riflessione e all’agire responsabile».
Il dibattito su ciò che è interpretato come “cognitivo” e “non” tuttavia è ancora in corso e mette al centro proprio i fattori che concorrono al successo formativo. «Se Gardner ci ha infatti spiegato come l’intelligenza ha una struttura multifattoriale e multidimensionale, Goleman e Senge hanno sottolineato la rilevanza delle intelligenze sociali, emotive e sistemiche», ricorda Simona Favari.
Siamo sicuri che la capacità di argomentazione non implichi anche strategie e abilità di tipo cognitivo? E se le competenze non cognitive fossero ascrivibili al concetto stesso di competenza? Le domande sono lecite. Una prima risposta, che riguarda la complessa definizione dell’espressione, possiamo trovarla nei modelli di riferimento del testo della proposta, che rimandano al Social-Emotional Learning (SEL) o “Apprendimento Sociale ed Emotivo”, diventato negli ultimi anni uno degli argomenti più importanti nel contesto formativo e didattico.
In un saggio di Ben Williamson del 2017, si legge infatti che le SEL sono «qualità personali, spesso descritte come dimensioni non accademiche e non cognitive dell’apprendimento, che comprendono auto-controllo, benessere, perseveranza, felicità, resilienza, mentalità aperta, grinta, intelligenza sociale, carattere e tutto ciò che deriva dalla fusione ‘psico-economica’ della psicologia positiva con l’economia comportamentale» (Moduling student emotions through computational psycology: affective learning technologies and algoritmic governance, Educational Media International). Le competenze non cognitive potrebbero essere interpretate come abilità legate ai “processi”, anche perché, prosegue Favari, «l’educazione alle life skills prevede una pedagogia trasformazionale, cioè orientata all’azione, e considera l’esperienza umana nel suo complesso, dando valore ad altri fattori oltre la conoscenza e considerando il sapere in nuove direzioni».
La notizia della proposta di legge sull’introduzione delle competenze non cognitive nel metodo didattico non arriva nelle nostre classi in un momento casuale. Perché il sistema scolastico ha bisogno di insistere su queste competenze in questo momento storico? Come dobbiamo interpretare tutta questa attenzione all’apprendimento socio-emotivo?
Per Simona Favari gli anni della pandemia hanno avuto un’influenza non indifferente su tutti gli attori che agiscono nel contesto educativo e formativo. Ci hanno ricordato infatti «che siamo fragili e vulnerabili, e che per salvaguardare la vita non bastano la scienza e la tecnica, ma sono fondamentali altri fattori, quali la responsabilità collettiva e la solidarietà». Anche la maturata consapevolezza dei danni di una società fondata sulla performance ha messo in discussione i paradigmi educativo-didattici.
Non meno importante il riferimento alle competenze richieste oggi dal mondo del lavoro. «La transizione dalla scuola al lavoro è un passaggio fondamentale, ma ancora poco presidiato», prosegue Favari, «e le capacità di trasformare le idee in azioni attraverso la creatività, l’assunzione del rischio, la capacità di pianificare e gestire progetti restano affidate a qualche insegnante più sensibile e volenteroso, ma non sono ancora perseguite in maniera sistemica».
In molte agenzie per la selezione del personale le competenze hard, cioè quelle che dipendono dal bagaglio formativo e dalle esperienze lavorative pregresse, rappresentano addirittura una precondizione, in alcuni casi nemmeno necessaria. Un tema che per il sistema d’istruzione italiano sembrava molto distante, ma che oggi rappresenta un nodo centrale e pone un grande interrogativo, che riguardò, qualche anno fa, l’entrata curricolare dell’educazione civica: perché le competenze sono ancora interpretate come una subordinazione dell’apprendimento strettamente disciplinare? Un elemento di novità da far rientrare nel paradigma educativo e didattico? E se non fosse davvero così?