“Ma che cos’ha?” “Quella persona è malata?” “Qual è il suo problema?” . Se una bambina o un bambino non ha mai incontrato una persona con disabilità, se non ha mai interagito con lei o ascoltato i suoi pensieri, molto probabilmente crescerà con la convinzione che non solo la disabilità è un attributo della persona e non una responsabilità della società, ma che avere una disabilità è allo stesso tempo fonte d’ispirazione e condanna: queste persone sono sì “speciali”, al pari di eroi contemporanei, ma sono anche “diverse”, perché hanno qualcosa in meno rispetto a quelle “normali”. Quand’è che il nostro linguaggio si è caricato di queste false credenze? Come parlare di disabilità con consapevolezza sia a scuola sia in altri contesti educativi?
«È difficile non cadere in determinati stereotipi quando a parlare di disabilità o di neurodivergenze (come l’autismo, la dislessia, la sindrome di Tourette, l’ADHD ecc.) non sono le persone che una condizione la vivono. Una narrazione ha bisogno di essere collettiva, ma se guardiamo alla narrazione della disabilità e delle neurodivergenze ci accorgiamo che tra le varie voci – quelle degli specialisti, dei familiari, delle associazioni, dei mezzi di comunicazione – manca proprio la voce delle persone direttamente interessate.
«Le persone disabili non sempre possono decidere in che modo essere descritte nel mondo», mi spiega Fabrizio Acanfora, divulgatore scientifico, scrittore e docente universitario, autore di In altre Parole, dizionario minimo di diversità (Effequ, 2021). Vista dall’esterno, dunque, la mancanza o l’alterazione di una caratteristica fisica, neurologica o sensoriale appare come una disgrazia, ed è così che il nostro linguaggio la manifesta: «Quest’accento sulla presunta sofferenza della diversità, nascono dal non conoscere la disabilità, dall’osservarla attraverso lo sguardo della “normalità”».
L’Organizzazione mondiale della sanità dice che questa relazione si situa tra la salute dell’individuo e i fattori personali e ambientali del suo contesto di vita. Ma tutto ciò non ci aiuta, perché, come sottolinea Stefano Benzoni, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, docente a contratto di Neuropsichiatria Infantile presso l’Università di Milano Bicocca, nella nostra cultura «la parola “salute” è ambigua e tende sempre a essere a sua volta medicalizzata».
Non basta dunque sentirci ripetere che la salute sia una semplice assenza di malattia. Il principale problema che abbiamo con la definizione della disabilità è che non abbiamo una cultura non medicalizzata delle abilità: «Contatta 100 insegnanti o 100 psicologi e psichiatri e chiedi loro cosa farebbero per bambini con difficoltà di lettura; daranno probabilmente risposte simili, in linea con i criteri sanitari. Chiedi agli stessi 200 esperti cosa ce ne facciamo di bambini con particolari abilità della lettura, e nel migliore dei casi avrai 200 risposte diverse».
Da non sottovalutare anche il cosiddetto inspiration porn, espressione coniata dalla defunta attivista disabile Stella Young, con cui nella nostra comunicazione rendiamo “oggetto” una parte del corpo o della psiche di una persona ritenuta “diversa”, per trarne ispirazione. Francesca Fedeli, fondatore e presidente della Fondazione FightTheStroke.org, che da molti anni è impegnata nella tutela dei diritti e dei bisogni dei bambini sopravvissuti all’ictus prenatale e che hanno sviluppato una condizione di disabilità e paralisi cerebrale infantile, mi racconta che «gli errori di narrazione sono più frequenti in Italia, soprattutto nelle campagne pubblicitarie per bambini con disabilità, rappresentati con mantello e superpoteri, come se un deficit di una funzione potesse essere compensato da uno sviluppo “migliore” di un altro tipo di capacità. È come dire “la tua storia mi ha molto ispirato, se ce la fai tu che sei sulla carrozzina, io non ho scuse per non andare a correre”».
La reiterazione di questi errori crea vere e proprie pratiche di abilismo: «A volte poniamo attenzione infatti prima al difetto che alla persona, e questo significa commettere un atto di discriminazione».
«Io non credo alla storiella del “non si può più dire nulla”», mi confessa Fabrizio Acanfora, «penso invece che chi sostiene certe posizioni desideri semplicemente mantenere il privilegio di poter parlare degli altri anche in modo offensivo, senza quella seccatura di doversi scusare o curare del dolore che le sue parole possano provocare».
Quando diamo voce al linguaggio della disabilità e delle neurodivergenze, infatti, usiamo termini o espressioni in modo improprio, ignorando i significati discriminatori e gli effetti concreti di tale atto comunicativo. Penso allo stigma, a battute o frasi scomode che pronunciamo senza rendercene conto, come "psicopatico", "cerebroleso", "sei uno spastico" e così via.
Per non parlare dell’utilizzo improprio del termine “neurodiversità”. Questa parola, coniata nel 1998 dalla sociologa e attivista australiana Judy Singer, non definisce la persona percepita come “diversa”, ma è l’omologo neurologico di biodiversità. Per cui, se il concetto di biodiversità definisce la variabilità biologica delle forme di vita sulla Terra, quello di neurodiversità definisce la variabilità di caratteristiche neurologiche tra tutte le persone, ossia, alla neurodiversità apparteniamo tutte e tutti.
«In questa infinità variabilità ci sono poi persone che condividono alcune caratteristiche. Quelle definite neurotipiche, perché seguono uno sviluppo neurologico comune alla maggioranza, e quelle neurodivergenti, il cui sviluppo neurologico diverge dalla media. La categoria delle persone neurodivergenti comprende condizioni come l’autismo, la dislessia, la disprassia, la sindrome di Tourette, l’ADHD ecc.».
Che cosa possiamo fare per generare esempi virtuosi di inclusione e di linguaggio consapevole? Il primo punto sollevato da Francesca Fedeli, che con la Fondazione FightTheStroke.org ha promosso molte campagne di sensibilizzazione ed educazione dentro e fuori le aule scolastiche, riguarda la legge sull’inclusione: «Serve un’inclusione “di fatto” e non solo formale. Oggi c’è un tema di “presunzione” nei confronti della scuola: è ancora difficile capire che la comunità educante agisce in un contesto più allargato rispetto a quello scolastico e per questo motivo va guidata nel consolidamento e aggiornamento di nuove competenze tecniche», grazie anche all’aiuto di enti, istituzioni e fondazioni. Per esempio, ci sono docenti di educazione fisica che hanno difficoltà a predisporre degli adattamenti per alcuni esercizi affinché i bambini con disabilità siano inclusi.
Ma queste competenze riguardano anche il linguaggio, che è in continua evoluzione. Spesso a scuola troviamo ancora le definizioni di “malato”, “costretto” o ancora più ghettizzanti, come “bambino diversamente abile”, “handicappato”. «Nella nostra esperienza, abbiamo invitato i docenti a esporre in maniera chiara e didascalica la narrazione corretta sulla disabilità e non cercare invece di “mascherare” il tema». In un lavoro di classe sulle Olimpiadi, dunque, non mancherà il riferimento alle Paralimpiadi, alle storie di atleti di successo.
Un altro suggerimento educativo, prosegue Fedeli, è la contaminazione: «Creare piccoli gruppi e ragionare insieme su tematiche che trattano in maniera corretta il tema della disabilità, come film o libri. Il consiglio è evitare di abbassare le aspettative e, in ogni caso tutto, tutto ciò che può essere percepito come un “esonero” o un programma differenziale».
Dopo la conoscenza delle parole, bisogna anche agire. Con le parole. Può essere utile ripulire il nostro linguaggio da metafore o espressioni discriminanti, quali “Ti prendesse un ictus”, “estirpiamo quel cancro” o ancora “cerebrolesi di tutti i Paesi unitevi”.
Ma non solo. Anche utilizzare la negazione “non” davanti a qualcosa è scorretto. Per esempio, la stessa comunità dei sordi si dichiara appunto “sorda” anziché “non-udente”, così come i ciechi si autodefiniscono “ciechi” anziché “non-vedenti”.
Meglio parafrasare anche tutte quelle parole che rimandano a un concetto di disabilità come impedimento e mettere al centro la persona. Per cui, se dobbiamo specificare una condizione, anziché dire “portatore di una disabilità”, sarebbe preferibile usare “persona con una ridotta funzionalità degli arti inferiori”. Anche quando utilizziamo il termine "diversamente", come “diversamente abile”, non miglioriamo la nostra comunicazione, anzi lasciamo intendere che qualcuno sia comunque "diverso" dagli altri e, quindi, inferiore.
I numeri: quanti sono gli alunni con disabilità a scuola
Durante l’anno scolastico 2020/2021, il secondo segnato dalla pandemia, si è assistito ad un aumento di circa 4 mila alunni con disabilità (il 3,6% degli iscritti a livello nazionale) nelle nostre scuole. «Questa dinamica», si legge nel Report Istat, «è il risultato della maggiore attenzione nel diagnosticare e certificare la condizione di disabilità tra i giovani, dell’aumento della domanda di assistenza da parte delle famiglie e della crescente sensibilità del sistema di istruzione ordinaria verso il tema dell’inclusione scolastica». Oggi, gli alunni con disabilità che frequentano le scuole italiane sono più di 300mila.
Per parlare in classe di disabilità e inclusione, la visione di un film può rappresentare un ottimo punto di partenza per imbastire una discussione ragionata sull'argomento. Ecco alcuni titoli consigliati da Francesca Fedeli.