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Caos in aula: perché si crea e come gestirlo

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Caos in aula: perché si crea e come gestirlo
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Inutile il pugno di ferro in aula. Meglio puntare sul coinvolgimento degli alunni attraverso una didattica differenziata.

Il sogno di ogni docente è lavorare con alunni volenterosi, interessati, rispettosi delle regole. In molti casi, invece, la realtà è ben diversa e ci si trova a che fare con ragazzi rumorosi, annoiati, poco partecipi. È vero: all’insegnante è richiesto di destreggiarsi, a mo’ di equilibrista, tra competenze disciplinari, psicopedagogiche, relazionali e didattiche, ma, a volte, la reazione istintiva di fronte a una classe cosiddetta difficile è desiderare solo di tapparsi le orecchie e scappar via. E magari ci si sente inadeguati.

Oppure si urla e si usa il pugno di ferro, forse utile per mantenere la disciplina, ma alla lunga è controproducente, dato che si finisce per generare malumori e disaffezione per la scuola. Si dovrebbe invece coinvolgere gli allievi, in modo che siano motivati al successo scolastico, e creare un produttivo ambiente di apprendimento e lavoro. Insomma, con la sola disciplina si mantiene l’ordine, ma non si gestisce la classe.

Che gli alunni siano diventati sempre più difficili non è solo una percezione: secondo una ricerca del CeDisMa (Centro Studi e Ricerche sulla Disabilità e Marginalità) dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il docente impiega all’inizio dell’anno quasi due mesi e mezzo per creare un adeguato clima in classe, mentre vent’anni fa bastavano poco più di due settimane. E il cambiamento dei ragazzi si nota nel comportamento irrispettoso verso le regole (68%), seguito da fragilità emotiva, disattenzione, irrequietezza, facilità ad annoiarsi, fino ad arrivare al comportamento irriguardoso verso docenti e compagni (22%).

La complessità degli alunni

Possono essere vari i motivi per i quali si genera il caos in classe. Riassumendoli in un solo termine, la causa è la complessità: «Ormai abbiamo ragazzi che portano in classe tutti i loro bisogni» spiega Luigi D’Alonzo, ordinario di pedagogia speciale alla Cattolica di Milano. «Una volta andavano a scuola e facevano fatica a esprimerli, mentre ora la scuola diventa una porta aperta alle loro insoddisfazioni: le problematiche familiari sono molto complesse e difficili e i ragazzi non hanno più freni né limiti». Così, all’interno di una stessa classe, il docente si deve occupare di allievi con problematiche personali, di allievi “male educati”, per via di genitori incapaci di dare limiti e regole, di allievi con disturbi specifici dell’apprendimento, di allievi stranieri problematici se non riescono a integrarsi o non padroneggiano la lingua, e ovviamente di allievi ansiosi, pigri o scansafatiche. «Si tratta di complessità comuni a bambini e adolescenti, con il problema in più, alla secondaria di primo grado, dell’esplosione puberale e dell’uso quotidiano di smartphone e tablet, che cozza contro una didattica fatta prevalentemente di lezioni frontali».

Proporre un piano educativo

A monte deve esserci un’alleanza tra adulti, sia tra docenti, per definire metodologie didattiche ed educative comuni, sia tra scuola e famiglia: «Le scuole dovrebbero presentare alle famiglie a inizio anno un piano educativo oltre al piano didattico, in modo da poter intervenire senza che i genitori protestino» spiega Anna Oliverio Ferraris, già ordinario di psicologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma. «Incontrare le famiglie e farle partecipi di questo piano è fondamentale, anche perché alcuni genitori non pensano che gli insegnanti abbiano il diritto di chiedere ordine e rispetto di regole. Eppure i loro figli passano gran parte del loro tempo a scuola, una comunità che ha necessariamente regole diverse da quelle di una famiglia di tre o quattro persone».

Insegnare a stare in gruppo

Una volta in aula, poi, il docente deve mettere in atto una serie di strategie di conduzione delle dinamiche di classe, che vanno dall’utilizzo della voce alla comunicazione non verbale, alla padronanza della situazione. E prestare adeguata attenzione alla gestione di quella che Paolo Ragusa, vicepresidente e responsabile delle attività formative del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, chiama “incompetenza sociale”. «Non si deve presupporre che, solo perché sono in una classe, tutti i bambini siano capaci di stare in gruppo. Chi disturba spesso è un incompetente sociale.

In tanti vengono messi al riparo da un contesto di gruppo, hanno un genitore tutto per sé e quindi sono portati a tiranneggiare l’adulto. In un gruppo classe, allora, la prima cosa che fanno è cercare l’adulto da tiranneggiare e spesso l’errore del docente è creare relazioni esclusive». Secondo Ragusa, infatti, sbaglia l’insegnante che mette vicino a sé un bambino che disturba: «Raccoglie la sua domanda di esclusività e non gli permette di imparare a stare con gli altri». Meglio invece farlo lavorare prima in coppia con un compagno e poi inserirlo in un gruppo più grande: «Bisogna costruire progressivamente la competenza sociale. Così il bambino impara a convivere con i limiti che l’altro gli pone, mentre l’insegnante gestisce tempi e modi di lavoro».

Digitale sì, ma senza esagerare

Nell’era in cui tutti siamo immersi nelle nuove tecnologie, è impensabile affidarsi esclusivamente alla didattica tradizionale fatta di lezioni frontali, interrogazioni e studio a casa. Difficilmente così si riesce a catturare l’attenzione degli studenti. A volte, come sostiene Oliverio Ferraris, «una situazione di caos in classe dipende anche da una didattica inadeguata». Il docente, quindi, deve essere pronto a mettere in discussione il modo in cui insegna. Se gli studenti sono molto cambiati, forse la scuola non lo è ancora abbastanza. Questo non significa il via libera a un’istruzione totalmente digitale: «Ben venga il nuovo, ma ogni mezzo va regolamentato» sostiene Ragusa. «L’apprendimento non è un fatto trasmissivo, è frutto di una relazione, sia con il docente sia con il gruppo classe. Nella didattica digitale, nella quale l’allievo è solo con il suo tablet, questa relazione sparisce».

No allo smartphone tout court, ma no anche a una didattica di soli gesso e lavagna. Si indica spesso quella di stampo montessoriano: «Strategie uguali per tutti non esistono, ma è necessario far nascere in bambini e ragazzi un interesse, una domanda e poi saranno loro a chiedere un approfondimento» spiega Oliverio Ferraris. «Occorre poi partire dalle cose concrete per arrivare alle astratte: in matematica,
ad esempio, si può fare emergere dall’allievo il teorema attraverso una serie di passaggi, in storia si può introdurre un argomento dalla vita quotidiana di un personaggio, per le scienze si può usare il laboratorio o andare al parco». Utile anche una gestione intelligente delle materie. «Se i ragazzi iniziano la giornata con l’ora di educazione fisica o con quella di musica per poi passare all’italiano o alla matematica sono molto più efficienti» sostiene Oliverio Ferraris. «Si ossigena il cervello dopo la notte».

Una didattica differenziata

Più in generale, per far fronte alla complessità di classi con alunni sempre più difficili, fragili, a volte tormentati, si fa strada, soprattutto nel mondo anglosassone, la didattica differenziata: in sostanza, la risposta dell’insegnante ai bisogni dello studente. Non si tratta però solo di alunni con bisogni speciali, ma di tutti i componenti della classe: la differenziazione didattica infatti propone attività mirate che soddisfino le esigenze dei singoli,
in un ambiente nel quale diventa una consuetudine affrontare il lavoro didattico con modalità differenti.
«Occorre motivare i ragazzi con una didattica attraente, non stantia, e se in classe si hanno problematiche, bisogni e abilità differenti, oltre che modi di apprendimento differenti, non si può pretendere che tutti facciano la stessa cosa nello stesso momento.

Si tratta di cambiare modo di pensare l’insegnamento

Non attività, tempi o anche contenuti uguali per tutti, ma riconoscimento delle differenze, valorizzazione, per quanto possibile, degli interessi degli allievi, e disponibilità a continui aggiustamenti, perché ogni allievo raggiunga quegli obiettivi che l’insegnante ha prefissato per lui» osserva D’Alonzo, autore di La differenziazione didattica per l’inclusione (Erickson). Tenendo conto dei principi generali su cui si basa la differenziazione didattica, cioè il rispetto delle esigenze di ogni allievo, il docente può differenziare i contenuti (ciò che l’allievo deve apprendere), il processo (ciò che mette in atto per far sì che l’allievo possa costruire i suoi saperi) e i prodotti da realizzare (problemi complessi e aperti utili a dimostrare la padronanza in un dato ambito di competenza), sempre però mantenendo alte le aspettative (ogni studente, stimolato e valorizzato, potrà dare il suo massimo). Per fare ciò, ovviamente, occorre conoscere molto bene i propri allievi, per quel che riguarda lo stile di apprendimento, le abilità intellettive specifiche, il modo in cui lavorano meglio, se da soli o in gruppo.

Le strategie

Quali strategie funzionano nella didattica differenziata? Diverse. Per fare solo alcuni esempi: le stazioni (spazi di lavoro, in cui tutti gli studenti devono “sostare”, dedicati a differenti attività, come il progetto, lo studio o la riflessione e il confronto con i compagni su quanto appreso); percorsi di apprendimento, predisposti per sostenere e rinforzare determinati apprendimenti, o percorsi di interesse, per sostenere e promuovere gli interessi degli studenti verso particolari attività o argomenti; tabelle di scelta, per far sì che lo studente possa scegliere quale compito svolgere tra quelli proposti; organizzatori grafici o mappe concettuali; la suddivisione in gruppi, per favorire il lavoro cooperativo e comunitario; la predisposizione di attività a “strati”, cioè a diversi livelli di complessità e di profondità, da quello base, raggiungibile da tutti, a quello finale, in cui occorre impiegare le capacità cognitive più elevate e raffinate.

Che sia proprio la didattica differenziata la risposta migliore alla complessità delle classi odierne? «L’abbiamo sperimentata con successo in diverse scuole e continuiamo a farlo» sostiene D’Alonzo, sicuro di quanto sia oggi più che mai necessario che gli insegnanti si aprano al nuovo, facendo anche un po’ di autocritica: se in classe non si sta bene probabilmente è anche colpa di una didattica ormai superata. Del resto, il benessere è un bene prezioso per tutti. Vale la pena almeno provare a raggiungerlo.